sabato 2 febbraio 2013

Una Rivoluzione dello Spirito



tratto da www.barbadillo.it

Bir Gandula, in Cirenaica. Sono le nove del mattino del 2 febbraio 1941. Uno Spitfire inglese scende a bassa quota e mitraglia un plotone di “camicie nere” rimasto isolato sul fronte libico. Tra i primi a cadere c’è un fiorentino non più giovanissimo, un uomo di 36 anni che ha chiesto con insistenza di essere richiamato alle armi come volontario, malgrado abbia lasciato a casa moglie e due figli. È Berto Ricci, scrittore, poeta e giornalista, nonché collaboratore della Scuola di mistica fascista di Niccolò Giani e Guido Pallotta.




Si potrebbe ricordare Ricci, a settantadue anni di distanza, soltanto per celebrarne la “bella morte”. Oppure per lodarne gli indubbi meriti culturali e il rigore intellettuale. Ma non è tutto. A chi – come noi di Barbadillo – piace ridar voce alle figure eccentriche, originali, fuori dal coro, spesso e volentieri eretiche per il loro tempo, la breve vita dell’intellettuale toscano appare l’esatto paradigma di questo genere di percorsi umani. Percorsi sempre in salita, come i tapponi di montagna al Giro d’Italia. A dimostrare che nel nostro Paese gli “indisciplinati” hanno sempre trovato lungo.

Per capire un po’ di più lo spirito di Ricci ci sono d’aiuto due personaggi diversissimi fra loro, ma in qualche modo accomunati allo scrittore fiorentino, e non solo per le comuni origini toscane: Beppe Niccolai e Indro Montanelli.

Niccolai – combattente, internato nel campo texano di Hereford, fascista “di sinistra”, giornalista, per molti anni deputato dell’Msi – così scriveva del suo illustre conterraneo: «Berto Ricci fu uomo di cocenti passioni. Chi disprezzava, Berto Ricci? I babbuini (così li chiamava), i fiaschi vuoti, i palloni gonfiati, i “farabutelli”, coloro che stanno sempre alla finestra, coloro che, dopo essersi rinchiusi in casa, scendono per la strada a cose fatte e magari dicono che hanno vinto. Mentre amava gli inquieti, i liberi, “quelli simili a praterie che inarca il vento alle foglie ambiziose”, come egli scrive in una sua poesia».

E Montanelli, che di Ricci era stato amico e allievo (aveva mosso i suoi primi passi da giornalista proprio alla rivista L’Universale), aggiungeva questo ricordo personale: «Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia mai trovato in questo Paese, in cui il carattere è l’unica materia in cui si passa sempre senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai apposta a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente: “Queste sono faccende in cui s’ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d’aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. (…) Pensaci, e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino, o sino all’esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato”».

Questo era Berto Ricci, figlio unico di un ferroviere, appassionato fin da ragazzo ai temi scientifici ma anche rapito dai grandi classici (Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Rabelais, Swift), insegnante di matematica e attento lettore di Stirner, Nietzsche, Sorel. Inizialmente anarchico, ma nel ’27, dopo aver esordito come giornalista su Il Selvaggio di Mino Maccari, convintamente fascista, fino alla fine. Dopo l’esperienza de Il Selvaggio, nel ’31 fonda L’Universale, giornale nato nell’ambiente fecondo e turbolento dei Guf di Firenze, fortemente critico con il nazionalismo angusto, con il capitalismo, con la Chiesa cattolica. Un periodico così “eretico” da passare i suoi guai con la censura: alcuni numeri vengono persino ritirati dal commercio. Facendo sobbalzare più d’un gerarchetto locale, così scriveva Berto Ricci: «Un’adunata non è Austerlitz, un treno festivo non è la Marcia su Roma: chiediamo alla stampa italiana buon senso e misura… Discorsi che si aprono con alacri invocazioni, sedute inaugurali che si chiudono con la consegna di artistiche pergamene, assemblee che scattano con un solo uomo, ma fino a quando mio Dio?»

Eppure nel ’34 lo stesso Mussolini volle conoscere questo pugno di giovani impertinenti toscani. È ancora Montanelli a ricordarlo, sul Corriere della Sera nel 1998: «Eravamo tutti eccitatissimi, salvo Berto. Forse per l’occasione il Duce aveva letto gli articoli dell’ultimo numero del nostro giornaletto e ne discusse coi singoli firmatari. A me che ne avevo scritto uno contro il razzismo, disse: “Giusto. Il razzismo è roba da biondi”. Poi chiese a Berto, che insegnava matematica, perché criticava la riforma Gentile. E Berto, senza tanti complimenti: “Perché ispirata all’idealismo cui dobbiamo tre o quattro generazioni di dilettanti, i quali conoscono tutte le teorie sul tornio, ma non sanno come lo si usa”. Il Duce parve colpito da quelle parole, poi gli chiese: “Voi eravate anarchico, vero?”. “Militante – rispose Berto – fino a due anni fa”. Il Duce lo fissò sorpreso, poi fece sorridendo: “Pure io, anche se non militante”».

Fascista di sinistra, Ricci era considerato un intransigente non soltanto sul piano morale e culturale. Anche sotto il profilo politico e ed economico era solito scandalizzare benpensanti e fascisti “moderati”: «Bisognerebbe smetterla con la leggenda della catastrofe russa, del caos bolscevico, della rovina di un impero – scriveva nel ’27 su Il Selvaggio – La Russia con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a se stessa, come fece la Francia con la Rivoluzione dei Girondini e dei Giacobini, l’Inghilterra con quella dei Roundheads e dei Levellers, e la Germania con quell’altra degli anabattisti e dei luterani. Noi italiani, che siamo anche noi una rivoluzione – e la maggiore – non possiamo sentirci più vicini a Londra parlamentare e conservatrice, a Parigi democratica e conservatrice che a Mosca comunista… L’AntiRoma c’è ma non è Mosca. Contro Roma, città dell’anima, sta Chicago, capitale del maiale».

Intellettuale, giornalista, poeta. Ma anche uomo d’azione. Nel ’35, quando scoppia la guerra d’Etiopia, Ricci e gli altri giovani de L’Universale non ci pensano due volte a chiudere il giornale e partire volontari: «Non è più tempo di carta stampata», scrivono nell’ultimo numero. Esperienza che ripeterà nel 1940 con la Seconda guerra mondiale, giungendo al punto di scrivere 12 lettere al gerarca Pavolini per “farsi raccomandare” e poter andare in prima linea. In una delle sue ultime missive dal fronte libico, Ricci scrive alla moglie: «Ai ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo, siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro e perché la sia finita con gli Inglesi e con i loro degni fratelli di oltremare, ma anche con qualche Inglese d’Italia. Vi abbraccio affettuosamente. Il tuo Berto». Le sue spoglie riposano nel Sacrario militare dei caduti d’Oltremare di Bari.