(Di
Vittorio Feltri – da “Il Giornale”)
Le riforme
della scuola non si contano più. In mezzo secolo saranno state sette o otto e
tutte hanno ottenuto risultati opposti a quelli sperati. Anziché migliorare il
funzionamento dell'istruzione, l'hanno peggiorato; ed è un miracolo che non
l'abbiano annullato: significa che l'impianto è solido, neppure i politici sono
stati capaci, nonostante l'impegno, di demolirlo.
Ogni volta
che un ministro ha tentato di mettere mano nelle strutture dell'educazione è
successo il finimondo: gli insegnanti, trascinandosi appresso gli studenti
(vittime della sindrome di Stoccolma), hanno protestato, scioperato,
manifestato.
Quando
Letizia Moratti introdusse novità nel sistema fu presa a male parole, accusata
di ogni nefandezza. Lo stesso trattamento fu riservato a Mariastella Gelmini,
colpevole di aver cercato di aggiustare l'aggiustabile. Non entro nel merito
delle ragioni e dei torti: non sono un esperto della materia né voglio
diventarlo. Sta di fatto che toccare la scuola è come sfiorare i fili dell'alta
tensione: si rimane fulminati, senza portare alcun vantaggio alla scuola
stessa, che seguita a essere inadeguata alle esigenze formative dei ragazzi,
sempre più in difficoltà nel trovarsi un posto di lavoro.
Ho citato
i casi di Moratti e Gelmini perché relativamente recenti; ma anche in passato
qualsiasi governo avventuratosi nel ginepraio scolastico ha fallito. Cosicché
l'apparato pedagogico italiano, nonostante una miriade di revisioni, non è
all'altezza dei tempi: via via si è trasformato in una sorta di ammortizzatore
sociale nel quale si rifugiano per campare migliaia di laureati rifiutati da
altre più redditizie professioni.
Non bastasse
l'esperienza fin qui acquisita da vari esecutivi, Matteo Renzi si è messo in
testa di risolvere il problema in cui i suoi predecessori si sono
immancabilmente smarriti. Gli auguriamo di fare centro nel proprio interesse e
soprattutto nel nostro, ma abbiamo il fondato sospetto che l'impresa sia
superiore alle sue forze. Infatti, non appena resi noti i punti salienti della
riforma presentata dalla ministra Stefania Giannini (quella rimproverata dai
media allorché si fece fotografare con le tette al vento in spiaggia: capirete
che trasgressione), il corpo docente attivo e la massa di aspiranti a sedersi
in cattedra si sono scatenati in polemiche insensate, comunque eccessive,
confermando che il settore è un vespaio.
Sono
parecchie le novità indigeribili per la categoria, tra cui i poteri
dirigenziali che sarebbero conferiti ai presidi, la cui autorità attualmente è
vicina allo zero. In sostanza, i professori non sopportano di aver un capo che
dia loro le pagelle in rapporto al rendimento, la quantità del quale
determinerebbe la retribuzione. Non c'è verso di convincere gli insegnanti che
non sono liberi professionisti, bensì dipendenti obbligati a rispondere del
proprio operato al dirigente d'istituto.
Ma queste
sono questioni tecniche poco appassionanti, immagino, per i nostri lettori. Il
nodo è un altro: in Italia nascono pochi bambini e troppi docenti.
Quest'ultimi, specialmente al Sud, considerano la scuola l'unico approdo
probabile, in assenza di altre opportunità lavorative. Il risultato è una
pletora di precari che attende un miracolo: entrare in ruolo. Ottenuta
l'assunzione in pianta stabile, chi era provvisorio e non lo è più si adagia.
Se poi è stato destinato, chessò, a Milano, fatica a sopravvivere nella
metropoli con un misero stipendio e punta a tornare nella propria terra, dove
gli affitti e i prezzi dei prodotti di consumo sono più bassi. Il trasferimento
è garantito. E siamo al cane che si morde la coda. Al Nord mancano i
professori, al Sud abbondano, ma la qualità dell'insegnamento continua a essere
scarsa. Perché? Quello dell'insegnante spesso è un mestiere di ripiego, pagato
poco eppure gradito assai alle donne con figli, che ritengono il proprio
salario una integrazione del reddito familiare. Esse si accontentano. Di norma
sono occupate qualche ora la mattina, si assentano con disinvoltura e alla
preparazione degli studenti non danno gran peso.
Ovviamente,
non si può fare di tutte le erbe un fascio, ma in linea di massima questa è la
realtà. Se, infine, valutiamo che la paga esigua respinge i cervelli più fini,
attratti da altre sistemazioni diversamente remunerate, si comprende il motivo
per cui la scuola è un ricettacolo di persone non sempre di alto profilo: in
pratica, come dicevamo sopra, un ammortizzatore sociale. E non soltanto per certi
laureati: anche per numerosi studenti che frequentano licei e istituti similari
(sicuri di essere promossi) in quanto privi di altre prospettive: i lavori
manuali non sono graditi ai giovani.
La scuola
non istruisce più: è un diplomificio che rilascia pezzi di carta inservibili.
Poi ci lamentiamo del declino inarrestabile che ci condanna all'arretratezza.
Ecco perché le riforme, a prescindere dal contenuto, sono brodini. Si
imporrebbe una rivoluzione, ma chi è attrezzato per realizzarla? Renzi ha una
moglie in cattedra che potrebbe aiutarlo? Non illudiamoci. L'unica soluzione
sarebbe quella di ripristinare - paradossalmente - il sistema ideato da
Giovanni Gentile, che era perfetto e alla base ha resistito ai colpi d'ascia
infertigli da parecchi governi democratici e pasticcioni, inconsapevoli del
vero morbo di cui soffre l'educazione patria. Già, si fa alla svelta a dire
Gentile. A guerra finita fu assassinato perché ideologo fascista, per quanto
innocuo. Riesumarne i criteri applicati all'istruzione sarebbe saggio, ma
proprio per questo nessuno oserà procedere. D'altronde, l'Italia ha mutato
pelle e anima: non ha il coraggio di riconoscere i propri errori e porvi
rimedio. La decadenza è assicurata.