venerdì 29 maggio 2015

Senza identità si può combattere il sistema?

(Di Francesco Carlesi - da "L'intellettuale dissidente")
In Italia continuano a farsi strada movimenti di protesta e idee “rivoluzionarie” che pretendono di contestare l’attuale sistema economico globale in nome dell’apertura delle frontiere e dell’annacquamento dei confini e dell’identità nazionale. A nulla sembra servire l’impegno di diversi pensatori marxisti di rilievo che da tempo hanno denunciato la contraddizione insita in una critica del genere. Impostare un discorso antisistemico sulla base di democrazia, diritti umani ed accoglienza indiscriminata, vuol dire semplicemente ingaggiare una battaglia sterile e controproducente che beffardamente accetta tutte le premesse della visione del mondo liberista. La concezione atomistica dell’individuo ben si sposa con il concetto di homo oeconomicus dell’economia classica, tanto che Alain De Benoist ha descritto i diritti umani come «l’armatura ideologica della globalizzazione».

Anni di errori culturali, pensiero debole e discorsi politicamente corretti hanno spianato la strada a una «visione fondamentalista» della globalizzazione, percepita come fenomeno inevitabile e non -come dovrebbe essere- processo da regolare attraverso la Politica. Austerità, disgregazione del tessuto sociale della nazione e perdita dei diritti sul lavoro l’ovvia conseguenza, a favore del mondo finanziario e di una ristretta élite apolide al potere. Non è complottismo sottolineare come mai la forbice ricchi – poveri è stata così ampia nella storia del mondo occidentale. E pensare che già Marx, nell’800, aveva sottolineato il formalismo e gli stretti legami dello Stato di diritto con gli interessi della “classe borghese capitalista”. Teorizzazioni riprese oggi, tra gli altri, da Diego Fusaro e Salvoj Zizek nel suo saggio «Contro i diritti umani».
In Italia c’è una storia di primo piano: Giuseppe Mazzini ha vergato pagine fondamentali in nome dell’anti-utilitarismo e dei «doveri dell’uomo», da opporre alle astratte teorie liberali. Sulla scia di queste intuizioni si pose un gigante della filosofia come Giovanni Gentile, che fece dell’ antindividualismo e del primato civile italiano i cardini del Regime: dalla Dottrina del fascismo (1932) fino al Codice Civile (1942), dove la Carta del Lavoro figurava simbolicamente quale introduzione. «Il lavoro non è una merce» e la battaglia «contro la demonia del denaro» erano non a caso il pane quotidiano della gioventù più spregiudicata e interessante dell’epoca, che ebbe in Nicolò Giani e Berto Ricci i nomi di punta.

«La comunità sociale, lo Stato, non è l’organizzazione creata per assicurare il benessere dell’individuo mortale nella sua limitata vita, ma è anzi la costruzione cui l’individuo è dedicato, in un continuo superamento di sé stesso, e che deve essere fatta vivere con la volontà e lo sforzo in ogni istante. Lo Stato consiste e vive nella coscienza, nell’azione, nel lavoro dei cittadini: e questa continua opera è l’attuazione di un dovere in quanto costituisce il superamento della particolarità individuale per realizzare quel più alto valore che si configura nella vita perenne della Nazione, e nel quale l’uomo attinge davvero la propria umanità. Il lavoro è insomma l’opera stessa con cui l’uomo contribuisce alla costruzione di quello Stato di cui è parte». Parole di Agostino Nasti, giovane collaboratore di Bottai. Ancora oggi ossigeno vitale contro l’appiattimento culturale, la finanza e la crisi. A meno che qualcuno pensi di cambiare le cose raccogliendo firme con le pettorine Greenpeace e UNHCR indosso, mentre whatsappa con l’ultimo iPhone.