venerdì 1 maggio 2015

Venner, l’ultima intervista: “Cari giovani, vi ho trasmesso un fuoco sacro”

(Da “Il primato nazionale”)
La presente intervista a Dominique Venner, finora inedita in Italia, è stata pubblicata in appendice al saggio di Julien Langella, La jeunesse au pouvoir (Editions du Rubicon, Paris 2015). Realizzata nel marzo 2013, è verosimilmente una delle ultime interviste concesse dall’autore, che come sappiamo si darà volontariamente la morte il 21 maggio dello stesso anno. Ne pubblichiamo qui la traduzione con il consenso dell’autore e dell’editore (IPN).
Lei ha evocato il suo impegno giovanile a più riprese. Può dirci a quale età si è impegnato in politica, quali erano le sue motivazioni e le lezioni che ne ha tratto?
A 15 anni, nel 1950, con un compagno di liceo decisi di arruolarmi nella Legione Straniera per cercare l’avventura. Era l’epoca della guerra d’Indocina. La mattina della partenza, alla Gare de Lyon di Parigi, mi sono ritrovato da solo. Il mio “complice” si era tirato fuori. Quel giorno ho capito lo spazio infinito che separa la parola e l’azione, le promesse e l’impegno mantenuto. Peraltro non solo il mio “complice” aveva rifiutare di compiere il grande passo, ma aveva anche raccontato tutto alle autorità del liceo. Sono dunque stato “pizzicato” molto presto dalla polizia. Ho parlato di tutto ciò in Le Cœur rebelle. Dopo questa prima avventura mi hanno rinchiuso in un pensionato della periferia parigina.

Un sabato ho coinvolto qualche compagno per saccheggiare la sede locale del Partito comunista che si abbandonava a una propaganda insultante contro i nostri soldati in Indocina. Fu un bello scandalo, ma non era che l’inizio.
Il mio vero impegno politico è cominciato nel 1956, al mio ritorno dall’Algeria, per la quale ero partito come volontario nel 1954. Avevo 21 anni. Per riassumere le cose all’estremo, avevo capito che la sorte degli europei d’Algeria – con i quali mi sentivo solidale – non si giocava fra le dune del deserto ma a Parigi, sul terreno politico. Un terreno che non conoscevo e che ho scoperto con una intensità passionale osservando il nemico (in quel tempo ho molto letto Lenin) e pagandone un prezzo salato: attivismo, scontri di strada, complotti, prigione …
Più tardi, molto più tardi, mi sono tirati fuori da ogni impegno politico. Avevo capito che non era la mia vocazione. Avevo altri compiti da svolgere. Nonostante questo, credo agli effetti positivi di un pensiero radicale che va al fondo delle cose. A dispetto delle sue storture, esso favorisce la rottura con tutti i conformismi. Allo stesso modo, credo agli effetti formatori positivi di un militantismo un po’ pericoloso. Nella dozzina di anni che ho consacrato all’attivismo intenso, ho incrociato da vicino o da lontano un certo numero di mediocri o di insensati, anche qualche canaglia o degli arrivisti. Ma è sempre lì che ho incontrato gli esseri più stimabili, i più coraggiosi e talvolta i più intelligenti che abbia mai conosciuto nella mia vita.
Aggiungo questo : senza il militantismo “radicale” della mia gioventù, senza le speranze, le illusioni, le defezioni, le vigliaccherie, le bassezze, i complotti un po’ folli, la prigione, le sconfitte, i colpi duri, ma anche senza gli ammirabili slanci di fedeltà a cui ho assistito, senza questa esperienza eccitante e crudele, mai sarei potuto divenire lo storico riflessivo che sono. E l’immersione totale nell’azione, con i suoi aspetti più sordidi e più nobili, che mi ha forgiato e mi ha fatto comprendere la storia dall’interno, al modo di un iniziato, e non come un erudito ossessionato da insignificanze o come spettatore idiota di apparenze.
A uno studente che l’ha interpellata recentemente su questo argomento, lei ha risposto: “Se prova il desiderio di una azione politica, si impegni pure, ma sapendo che la politica ha le sue proprie regole, che non sono quelle dell’etica”. InLe siècle de 1914 lei cita una celebre massima cinese: “Utilizza la mano di un altro per abbattere il tuo nemico”. Ci può spiegare la sua posizione su queste due idee e perché esse sono importanti nel contesto attuale?
Sono due riflessioni molto differenti. Se lei rilegge attentamente i testi che cita lo comprenderà. La prima riflessione sottolinea l’opposizione esistente tra la pratica triviale della politica e le aspettative dei militanti innamorati dell’ideale o dell’eroismo. Tutto nasce dalla confusione moderna tra religione e politica, quando la politica s’è fatta religione, nel prolungamento della Rivoluzione francese, ai tempi soprattutto del comunismo trionfante, del fascismo e del nazionalsocialismo.
Ho sviluppato questo concetto in maniera dettagliata nel mio libro Le Choc de l’Histoire, capitolo “Mistica e politica”. Per dirla altrimenti, gli eroi idealisti di Corneille o di Stendhal sono estranei alle ambizioni ristrette e al cinismo del Principe di Machiavelli. Ma, dato che nulla è mai semplice, Nietzsche è venuto a seminare la perturbazione tra coloro che cercano i miraggi della volontà di potenza. “Siamo immorali, quindi saremo come De Gaulle”, si dicono costoro guardandosi allo specchio. Ma non è che una postura.
Quanto alla massima cinese, ha davvero bisogno di essere commentata? “Utilizza la mano di un altro per abbattere il tuo nemico” è una buona strategia. Come fece Stalin con Hitlerquando favorì contro quest’ultimo l’entrata in guerra dell’Inghilterra e dei suoi alleati nel 1939, in seguito al patto tedesco-sovietico.
Nel suo libro Le Cœur rebelle, lei scrive nelle conclusioni: “Io sono della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del solstizio d’inverno e di San Giovanni di estate”. È una professione di fede?
È una risposta a coloro che pretendono che l’Europa non sappia cosa essa stessa è. È un modo per dire che cerco rifugio in me, più vicino possibile alle mie radici e non in una lontananza che mi è estranea. Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima europea. Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la spiritualità implicita.
Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è dato di ritrovare òa nostra memoria e la continuità della nostra tradizione primordiale. Si scopre allora che il cristianesimo, estraneo all’Europa nelle sue origini, fu in seguito trasfornato dall’interno dai nostri antenati romani, galli o germani. Esso fu spesso vissuto come una trasposizione degli antichi culti.
Dietro i santi, si continuavano a celebrare gli dei familiari senza porsi questioni. E nei monasteri, divenuti rifugio del sapere, si ricopiavano i testi antichi per trasmetterli senza censurarli.
In quanto storico, cosa le ispira il termine “giovinezza”? È un concetto recente o è una realtà effettiva? Esiste uno sguardo specificamente europeo sulla giovinezza?
Si tratta in realtà di un concetto sociologico recente in cui si mescolano politica e marketing. Questo concetto è in relazione con il prolungamento della vita e con quello dell’adolescenza. Fino al XIX secolo incluso, si ignorava questa classe d’età che noi chiamiamo giovinezza. C’era l’infanzia e, senza vera transizione, l’età dell’azione. Nella nobiltà, i ragazzi entravano spesso nella carriera militare a dodici anni. Età nella quale le ragazze si sposavano se aerano nubili.
Gli esempi di carriera precoce nei personaggi celebri non mancano. È il caso del futuro generale e teorico militare prussiano Carl von Clausewitz. Nella primavera del 1793, davanti Magonza, egli serviva come porta-insegna. Aveva dodici anni. Era così piccolo, e la sua bandiera così pesante, che i soldati lo facevano astenere dal servizio, salvo che per traversare i villaggi in cui la brava gente applaudiva il valore nella persona di questo ragazzo. Due giorni prima della capitolazione di Magonza, il giovane Carl montava la guardia. Ora aveva tredici anni. Fu nominato Fähnrich (aspirante) e proseguì la campagna a cavallo in tenuta da ufficiale.
Su un altro livello, possiamo ricordare che Luigi XIII aveva solo quindici anni quando decise di prendere personalmente il potere facendo assassinare Concini. Era il 1617. Le responsabilità precoci sono la migliore scuola di vita.
Secondo lei quale grande figura storica, di ieri o di oggi, la gioventù dovrebbe prendere come esempio?
Ho appena citato, casualmente, due personaggi molto differenti fra loro dei tempi passati. Potrei aggiungere due contemporanei, i due grandi Ernst, che hanno detto molto a proposito degli impegni passionali della loro gioventù. Ernst Von Salomon, l’autore dei Proscritti e del Questionario, e, ovviamente, Ernst Jünger, l’autore delle Tempeste d’acciaio, del Diario e di tanti altri scritti. Io ho consacrato a lui un saggio sottotitolato “Un altro destino europeo”. Dico “altro” in paragone a quello che ci viene servito dal pensiero servile. “Un altro”, anche perché il suo è stato autentificato dalla sua stessa vita.
Io ho riposizionato l’itinerario di Jünger nella sua verità, al cuore delle epoche successive che egli ha attraversato in una vita che si confonde con il XX secolo. Bellicoso e temerario nella sua gioventù, ammiratore di Hitler all’inizio e poi suo irriducibile avversario, non ha mai rinnegato il giovane ufficiale eroico delle truppe d’assalto che cantava “La guerra, nostra grande madre”, né l’intellettuale faro della “Rivoluzione conservatrice”. Ma egli fu anche il giovane guerriero pensoso che ammirava lo schiudersi di un fiore nel campo di morte della trincea. A differenza di Heidegger, egli aveva la certezza che i titani della tecnica possono essere vinti, come è detto nellaTeogonia di Esiodo.
Si presenta il maggio ’68 come esplosione legittima di una gioventù in rivolta dal conservatorismo e dalla rigidità dell’era gollista. Condivide questa analisi? E, più genericamente, cosa pensa della “generazione ’68” e della sua influenza sulla società francese?
Dieci anni separano il maggio 1958, con il ritorno al potere del generale De Gaulle, e il maggio 1968. Il primo avvenimento è simbolizzato dal basco rosso dei paracadutisti. Il secondo dalla parrucca di chienlit (*). Tra le due date, dieci anni di un potere che aveva distrutto la destra nazionale rinascente facendo l’alleanza con l’estrema sinistra mediatizzata. Per quel che può interessare, ho raccontato questa storia nel mio saggio De Gaulle. La grandeur et le néant (Le Rocher, 2004).
Questo episodio mostra a quale punto la previsione storica sia difficile e anche quanto sia stato sopravvalutato il ruolo del celebre generale. Con molta leggerezza, egli aveva favorito l’avvento della “generazione ’68” che stava per lasciarlo al tappeto e la Francia con lui. Sorprendente buffoneria!
Dopo aver trovato la sua ispirazione ideologica in Mao, questa generazione si è rivolta senza apparente imbarazzo all’impero del dollaro che alla fine era più consono ai suoi sogni di decostruzione infantile, di ricco edonismo e di meticciato turistico.
Quali differenze nota tra la gioventù della sua epoca e quella di oggi?
Quelli della mia generazione (in realtà una piccola minoranza di questa generazione) hanno avuto la fortuna di vivere nell’orizzonte della guerra e nella speranza di una rivoluzione nazionalista europea. Lo dobbiamo alla guerra d’Algeria. Che fu un orrendo incubo per le vittime, nostri compatrioti, traditi dal loro governo e cacciati da casa loro con una sanguinosa epurazione etnica. Ma fu anche l’occasione per un risveglio avventuroso nella mia generazione.
La piccola minoranza attiva che diede vita a Europe Action e alla Federazione degli studenti nazionalisti (il Fen) era politicamente e spiritualmente orfana (contrariamente alla vostra generazione). Coloro che ci avevano preceduto ci avevano trasmesso poco, se non esempi di coraggio nelle avversità, il che non è poco comunque. Ma, appartenendo a un’altra epoca, essi non potevano consegnarci le chiavi per pensare, vivere e agire nel nostro mondo. Un mondo totalmente nuovo, nato dal grande ripiego europeo seguente alla Seconda guerra mondiale, alla decolonizzazione, all’egemonia americana. È per questo che dico che noi eravamo degli orfani.
Abbiamo dovuto inventare da soli tutto o quasi. Ho raccontato le premesse di questo sforzo in Le Cœur rebelle. In seguito, ho formulato delle risposte lavorando a diverse mie opere, particolarmente a Le Siècle de 1914 per la lezione da prendere dal XX secolo, e Histoire et tradition des Européens per la “reinvenzione” delle nostre fonti antiche e di una autentica visione europea della vita. I miei editoriali sulla Nouvelle Revue d’Histoire hanno prolungato queste meditazioni. Ho in seguito sintetizzato queste idee in una forma più accessibile in un libro di interviste, Le Choc de l’Histoire. Questo sforzo va inserito in un grande numero di iniziative innovative organizzate nella stessa epoca in tanti luoghi differenti.
Il loro insieme costituisce un giacimento inesauribile a disposizione della vostra generazione e delle seguenti. È una differenza capitale rispetto alla mia. Noi abbiamo fatto in modo che voi non siate orfani. Abbiamo ridato vita al fuoco sacro delle nostre origini, in parte spento da molto tempo. E questo fuoco ve lo abbiamo trasmesso.
Come vede l’avvenire della Francia e dell’Europa? È possibile fare delle previsioni?
L’avvenire dei francesi autentici non è separabile da quello degli altri europei. Quando parlo di Europa, metto ovviamente da parte la “cosa” di Bruxelles. Penso alla nostra civiltà multi millenaria, alla nostra comunità dei popoli. Da questo punto di vista, un compito essenziale incombe sulla vostra generazione e sulle seguenti, quello di annodare legami personali dappertutto in Europa, superando la routine e le barriere linguistiche. Zaino in spalla, come i Wandervögel, come aveva fatto Jean Mabire, voi dovete partire per incontrare ragazzi e ragazze della nostra grande patria europea, riscoprire i luoghi altamente simbolici della nostra civiltà celtica, slava e germanica, irrigata dal flusso della tradizione greca e romana!
Dopo la catastrofe del “secolo 1914", l’Europa dei popoli è in sonno, schiacciata dal peso della sua dismisura e delle sue divisioni fratricide, senza contare le imprese incessanti per snaturarla. Gli europei sono oggi di fronte a sfide mortali. Ma io sono fra coloro che pensano che le sfide siano generatrici di risvegli di energie nuove. Dicendo questo, sono ben cosciente che io stesso non vedrò questa risurrezione. Ma nonostante questo, di tale risveglio delle energie europee io non dubito neanche un istante.

(*) Chienlit è un personaggio del Carnevale di Parigi, il cui nome deriva da “chie-en-lit”, ovvero “caga al letto”. L’espressione divenne famosa quando, dopo i primi tumulti del ’68, De Gaulle disse ai giornalisti: “La riforma sì, il chienlit no”, bollando di fatto le manifestazioni come una carnevalata scomposta. L’Atelier des Beaux-arts rispose con un famoso manifesto con la caricatura della silhouette di De Gaulle e la scritta “La Chienlit c’est lui!”.