martedì 5 maggio 2015

Fiori d'acciaio, elogio della femmina

(Di Valerio Alberto Menga – da “L’intellettuale dissidente”)
«L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo». San Paolo
La società occidentale si è sottoposta da tempo ad un radicale cambiamento morfologico, ad una mostruosa amputazione. La globalizzazione sta avendo effetti imprevisti ed imprevedibili, oltre che indesiderabili.
 L’egualitarismo totalitario sta creando delle vere e proprie aberrazioni. Le differenze non sono più concepite, troppo difficili da accettare. Meglio un mondo appiattito, più veloce (più fast), più semplice (più easy).
Meglio un mondo ridotto ad uno per i cantori dell’eguaglianza totalitaria dei diritti umani. Tra le varie mostruosità messe in atto dalla globalizzazione vi è anche quella della scomparsa dei sessi. Non esiste più la sessualità, ma bensì il “genere”. Parlare di sessualità è divenuto, anch’esso, discriminatorio. Ha scritto bene, infatti, Pietrangelo Buttafuoco nel suo Fimmini del 2009: «Il sesso è una brama che non frequenta il rancore depressivo della modernità». Come ha ragione il Renton del film Trainspotting di Danny Boyle, del 1996, quando afferma: «Il mondo sta cambiando [...] perfino gli uomini e le donne stanno cambiando. Tra mille anni non ci saranno più maschi e femmine, solo segaioli». Anziché i mille anni previsti, ne sono bastati venti. La dicotomia maschio/femmina è troppo bipolare per la post-modernità. Una sorta di relativismo strumentale e opportunistico ha ribaltato i concetti su cui finora tutte le società del mondo si sono basate. Stiamo passando dall’Uno, nessuno e centomila di Pirandello all’uno, uno solo e nessun altro che la globalizzazione sta mettendo in atto da tempo. Una sorta di monoteismo laico pare conformarsi all’orizzonte.
Il confrontarsi con l’altro sesso è un compito difficile. Ci si scontra, certo. Ma lo scontro genera scintille. E le scintille generano il fuoco. Il fuoco della vita. Una volta c’erano l’uomo e la donna. Ognuno complementare all’altro. Diversi tra loro, si attraevano come i due poli di una calamita. Perché, in fisica, solo gli stessi poli si respingono. L’uomo era la Forza, l’Ordine e la Sicurezza. La donna era la Grazia, la Bellezza e la Vita. L’uomo cacciava, procurava il cibo per il resto della famiglia. La donna, contenitore di vita, accudiva i figli generati insieme e manteneva intatta la dimora che, insieme, si erano scelti. L’uno vitale per l’altra. I cristiani affermano che, secondo la Genesi, la donna sia stata creata da una costola dell’uomo. Per fargli compagnia, perché solo. C’è in questa idea tutto il maschilismo tipico della teologia cristiana che qui si vuole negare. La donna non è inferiore, subordinata all’uomo. Gli è invece complementare, essenziale, vitale. Alla narrazione cristiana qui si preferisce rifarsi alla mitologia pagana. Per esaltare la donna, la femmina, l’Altro, il Diverso. E si è scelto il mito di Prometeo come strumento narrativo. La Donna è fiamma che accende i cuori, infiamma le carni e brucia l’anima. E l’uomo, da sempre vocato all’autodistruzione, vuole bruciare con lei, fiamma ardente, per divenire cenere insieme. Se la Donna è Fuoco, l’uomo vuole essere il suo Prometeo. Per rubarla, farla sua, e regalarla al mondo. Il matrimonio (che deriva da mater, appunto) è rapimento legalizzato, furto della Bellezza che ha come fine la Vita, la continuità: generare un figlio. Il sangue si mescola e genera il diverso. Diverso ma uguale a entrambi. Per provare almeno l’ebbrezza di un’illusione di eternità. Affinché qualcosa rimanga anche dopo la morte di ognuno. Per una madre la morte del figlio è difficile, inaccettabile: un’amputazione dell’anima. Per un padre, invece, è impossibile da affrontare. Gliene manca la forza. Che poi, questo dell’uomo forte è un cliché. Non vi è dubbio che il maschio sia fisicamente più forte rispetto alla femmina. Ma dove risiede lavera forza? Si cela appunto nella donna, il “sesso debole” per antonomasia.
Alcune righe scritte a tal proposito dalla formidabile penna di Stenio Solinas possono meglio chiarire quanto appena accennato: «Di tante vite spezzate quello che alla fine resta è lo strazio delle madri. I padri quasi sempre con quello strazio non sono riusciti a convivere, e se li è portati via un infarto, una depressione, la cirrosi da troppo alcol, il tumore da troppo fumo [...] Le madri no, per loro quella morte rimane una ferita sempre aperta e dieci, venti, trent’anni dopo che il loro figlio se n’è andato sono ancora lì, a tenere in ordine la tomba, a rimettergli a posto i cassetti del comò, a prendere fra le mani quel maglione che gli piaceva tanto, la foto della prima comunione, le lettere e i telegrammi di cordoglio… Quel giorno sono morte anche loro eppure è quella morte che le ha tenute in vita, come se lasciarsi andare, cedere, significasse perderlo per sempre, toglierselo anche dal cuore, l’unico posto dove non si muore mai». Dove andrebbero gli uomini senza l’aiuto delle proprie donne, aggraziate come i fiori, ma resistenti e forti come l’acciaio?
Fiori d’acciaio. Ecco l’unica definizione che qui si vuole accettare della donna. In essa vi è la triplice valenza di grazia, delicatezza e forza. Quando arrivano le vere prove della vita, quelle più dure, l’uomo si ritrae in se stesso, ammutolisce. Non riesce a consolare, non gli riesce di affrontare il dolore. Ad un amico caduto in disgrazia l’unica cosa che gli riesce di fare è offrirgli una birra e dirgli «Tò, bevici sopra». Per dimenticare. Davanti al dolore l’uomo sceglie l’oblio. Gli volta le spalle e si defila. La donna invece, con la sua grazia, gli si accosta, affronta il dolore. Prende la mano dell’afflitto e, senza ricorrere all’oblio e all’alcool, gli riesce di consolarlo e di fargli forza. Di dare all’uomo ciò che crede di avere e che invece non ha. La tragicommedia – forse l’unica tragicommedia americana – intitolata appunto Fiori d’acciaio, mostra nel film come gli uomini, in seguito alla morte della protagonista, si ritraggono di fronte al dolore, muti. Al funerale della bella e giovane Shelby, essi si defilano. Solo le donne rimangono. Il marito di Annelle, amica della defunta, una volta terminate le esequie, sale in macchina e dice alla consorte, mani sul volante: «Vieni, su, andiamo a casa». E lei, con lo sguardo rivolto verso la madre – l’unica che è rimasta, in piedi, davanti alla tomba della figlia – risponde scuotendo il capo: «Aspetta». Si avvia quindi verso l’amica e affronta il dolore che né suo marito, né il padre, né il consorte della giovane Shelby hanno saputo affrontare. Loro, una volta terminate le commemorazioni, se ne sono andati, in silenzio. Sono fuggiti, insomma. Loro, invece, le cinque donne protagoniste – la sesta non c’è più –, si ritrovano da sole davanti alla tomba, per far forza alla madre sofferente. Una delle donne dirà all’afflitta: «Drum [il padre di Shelby] ci ha detto che non l’hai lasciata un instante». E lei in tutta risposta. «Beh…potevo mollare la mia Shelby?». Davanti alla fuga degli uomini, alla fine constata: «Trovo che è comico. Gli uomini dovrebbero essere d’acciaio… O chessò… Ed ero lì io». Riescono loro, fiori d’acciaio. Dove non riusciamo noi, uomini di burro. Cosa ne sarà di un mondo senza né donne né uomini? Dove si nasconderà la forza un domani? Una risposta non la si ha ancora. Ieri aveva il volto impensabile della donna, ma domani non avrà certo il volto del Gender unico.

Alle donne, tutte, fiori d’acciaio.