(Di Valerio
Alberto Menga – da “L’intellettuale dissidente”)
«L’uomo non deve
coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è
gloria dell’uomo». San Paolo
La società occidentale si è sottoposta da tempo ad un
radicale cambiamento morfologico, ad una mostruosa amputazione. La
globalizzazione sta avendo effetti imprevisti ed imprevedibili, oltre che
indesiderabili.
L’egualitarismo totalitario sta creando delle vere e proprie aberrazioni. Le differenze non sono più concepite, troppo difficili da accettare. Meglio un mondo appiattito, più veloce (più fast), più semplice (più easy).
Meglio un mondo ridotto ad
uno per i cantori dell’eguaglianza totalitaria dei diritti umani. Tra le varie
mostruosità messe in atto dalla globalizzazione vi è anche quella della
scomparsa dei sessi. Non esiste più la sessualità, ma bensì il “genere”.
Parlare di sessualità è divenuto, anch’esso, discriminatorio. Ha scritto bene,
infatti, Pietrangelo Buttafuoco nel suo Fimmini del 2009: «Il sesso è una brama che non
frequenta il rancore depressivo della modernità». Come ha ragione il Renton del
film Trainspotting di Danny Boyle, del 1996, quando
afferma: «Il mondo sta cambiando
[...] perfino gli uomini e le donne stanno cambiando. Tra mille anni non ci
saranno più maschi e femmine, solo segaioli». Anziché i mille anni previsti, ne
sono bastati venti. La dicotomia maschio/femmina è troppo bipolare per la
post-modernità. Una sorta di relativismo strumentale e opportunistico ha
ribaltato i concetti su cui finora tutte le società del mondo si sono basate.
Stiamo passando dall’Uno, nessuno e centomila di Pirandello all’uno, uno solo e
nessun altro che la globalizzazione sta mettendo in atto da tempo.
Una sorta di monoteismo laico pare conformarsi all’orizzonte.L’egualitarismo totalitario sta creando delle vere e proprie aberrazioni. Le differenze non sono più concepite, troppo difficili da accettare. Meglio un mondo appiattito, più veloce (più fast), più semplice (più easy).
Il confrontarsi con l’altro sesso è un compito difficile.
Ci si scontra, certo. Ma lo scontro genera scintille. E le scintille generano
il fuoco. Il fuoco della vita. Una volta c’erano l’uomo e la donna. Ognuno
complementare all’altro. Diversi tra loro, si attraevano come i due poli di una
calamita. Perché, in fisica, solo gli stessi poli si respingono. L’uomo era la
Forza, l’Ordine e la Sicurezza. La donna era la Grazia, la Bellezza e la Vita.
L’uomo cacciava, procurava il cibo per il resto della famiglia. La donna,
contenitore di vita, accudiva i figli generati insieme e manteneva intatta la
dimora che, insieme, si erano scelti. L’uno vitale per l’altra. I cristiani
affermano che, secondo la Genesi, la donna sia stata creata da una costola
dell’uomo. Per fargli compagnia, perché solo. C’è in questa idea tutto il
maschilismo tipico della teologia cristiana che qui si vuole negare. La donna
non è inferiore, subordinata all’uomo. Gli è invece complementare, essenziale,
vitale. Alla narrazione cristiana qui si preferisce rifarsi alla mitologia
pagana. Per esaltare la donna, la femmina, l’Altro, il Diverso. E si è scelto
il mito di Prometeo come strumento narrativo. La Donna è fiamma che accende i
cuori, infiamma le carni e brucia l’anima. E l’uomo, da sempre vocato
all’autodistruzione, vuole bruciare con lei, fiamma ardente, per divenire
cenere insieme. Se la Donna è Fuoco, l’uomo vuole essere il suo Prometeo. Per
rubarla, farla sua, e regalarla al mondo. Il matrimonio (che deriva da mater,
appunto) è rapimento legalizzato, furto della Bellezza che ha come fine la
Vita, la continuità: generare un figlio. Il sangue si mescola e genera il
diverso. Diverso ma uguale a entrambi. Per provare almeno l’ebbrezza di
un’illusione di eternità. Affinché qualcosa rimanga anche dopo la morte di
ognuno. Per una madre la morte del figlio è difficile, inaccettabile:
un’amputazione dell’anima. Per un padre, invece, è impossibile da affrontare.
Gliene manca la forza. Che poi, questo dell’uomo forte è un cliché. Non vi è
dubbio che il maschio sia fisicamente più forte rispetto alla femmina. Ma dove
risiede lavera forza? Si
cela appunto nella donna, il “sesso debole” per antonomasia.
Alcune righe
scritte a tal proposito dalla formidabile penna di Stenio Solinas possono
meglio chiarire quanto appena accennato: «Di
tante vite spezzate quello che alla fine resta è lo strazio delle madri. I
padri quasi sempre con quello strazio non sono riusciti a convivere, e se li è
portati via un infarto, una depressione, la cirrosi da troppo alcol, il tumore
da troppo fumo [...] Le madri no, per loro quella morte rimane una ferita
sempre aperta e dieci, venti, trent’anni dopo che il loro figlio se n’è andato
sono ancora lì, a tenere in ordine la tomba, a rimettergli a posto i cassetti
del comò, a prendere fra le mani quel maglione che gli piaceva tanto, la foto
della prima comunione, le lettere e i telegrammi di cordoglio… Quel giorno sono
morte anche loro eppure è quella morte che le ha tenute in vita, come se
lasciarsi andare, cedere, significasse perderlo per sempre, toglierselo anche
dal cuore, l’unico posto dove non si muore mai». Dove andrebbero gli
uomini senza l’aiuto delle proprie donne, aggraziate come i fiori, ma resistenti
e forti come l’acciaio?
Fiori d’acciaio. Ecco l’unica definizione che qui si
vuole accettare della donna. In essa vi è la triplice valenza di grazia,
delicatezza e forza. Quando arrivano le vere prove della vita, quelle più dure,
l’uomo si ritrae in se stesso, ammutolisce. Non riesce a consolare, non gli
riesce di affrontare il dolore. Ad un amico caduto in disgrazia l’unica cosa
che gli riesce di fare è offrirgli una birra e dirgli «Tò, bevici sopra». Per dimenticare.
Davanti al dolore l’uomo sceglie l’oblio. Gli volta le spalle e si defila. La
donna invece, con la sua grazia, gli si accosta, affronta il dolore. Prende la
mano dell’afflitto e, senza ricorrere all’oblio e all’alcool, gli riesce di
consolarlo e di fargli forza. Di dare all’uomo ciò che crede di avere e che
invece non ha. La tragicommedia – forse l’unica tragicommedia americana –
intitolata appunto Fiori
d’acciaio, mostra nel film come gli uomini, in seguito alla morte della
protagonista, si ritraggono di fronte al dolore, muti. Al funerale della bella
e giovane Shelby, essi si defilano. Solo le donne rimangono. Il marito di
Annelle, amica della defunta, una volta terminate le esequie, sale in macchina
e dice alla consorte, mani sul volante: «Vieni,
su, andiamo a casa». E lei, con lo sguardo rivolto verso la madre – l’unica che
è rimasta, in piedi, davanti alla tomba della figlia – risponde scuotendo il
capo: «Aspetta». Si avvia quindi
verso l’amica e affronta il dolore che né suo marito, né il padre, né il
consorte della giovane Shelby hanno saputo affrontare. Loro, una volta
terminate le commemorazioni, se ne sono andati, in silenzio. Sono fuggiti,
insomma. Loro, invece, le cinque donne protagoniste – la sesta non c’è più –,
si ritrovano da sole davanti alla tomba, per far forza alla madre sofferente.
Una delle donne dirà all’afflitta: «Drum
[il padre di Shelby] ci ha detto che non l’hai lasciata un instante». E lei in
tutta risposta. «Beh…potevo
mollare la mia Shelby?». Davanti alla fuga degli uomini, alla fine constata: «Trovo che è comico. Gli uomini
dovrebbero essere d’acciaio… O chessò… Ed ero lì io». Riescono loro, fiori
d’acciaio. Dove non riusciamo noi, uomini di burro. Cosa ne sarà di un mondo
senza né donne né uomini? Dove si nasconderà la forza un domani? Una risposta
non la si ha ancora. Ieri aveva il volto impensabile della donna, ma domani non
avrà certo il volto del Gender unico.
Alle donne, tutte, fiori d’acciaio.