(Di Francesco Carlesi - da "L'intellettuale dissidente")
In Italia
continuano a farsi strada movimenti di protesta e idee “rivoluzionarie” che
pretendono di contestare l’attuale sistema economico globale in nome
dell’apertura delle frontiere e dell’annacquamento dei confini e dell’identità
nazionale. A nulla sembra servire l’impegno di diversi pensatori marxisti di
rilievo che da tempo hanno denunciato la contraddizione insita in una critica
del genere. Impostare un discorso antisistemico sulla base di democrazia,
diritti umani ed accoglienza indiscriminata, vuol dire semplicemente ingaggiare
una battaglia sterile e controproducente che beffardamente accetta tutte le
premesse della visione del mondo liberista. La concezione atomistica
dell’individuo ben si sposa con il concetto di homo
oeconomicus dell’economia
classica, tanto che Alain De Benoist ha descritto i diritti umani come
«l’armatura ideologica della globalizzazione».
Anni di errori
culturali, pensiero debole e discorsi politicamente corretti hanno spianato la
strada a una «visione fondamentalista» della globalizzazione, percepita come
fenomeno inevitabile e non -come dovrebbe essere- processo da regolare
attraverso la Politica. Austerità, disgregazione del tessuto sociale della
nazione e perdita dei diritti sul lavoro l’ovvia conseguenza, a favore del
mondo finanziario e di una ristretta élite apolide al potere. Non è
complottismo sottolineare come mai la forbice ricchi – poveri è stata così
ampia nella storia del mondo occidentale. E pensare che già Marx, nell’800,
aveva sottolineato il formalismo e gli stretti legami dello Stato di diritto
con gli interessi della “classe borghese capitalista”. Teorizzazioni riprese
oggi, tra gli altri, da Diego Fusaro e Salvoj Zizek nel suo saggio «Contro i
diritti umani».
In Italia c’è una storia di primo piano: Giuseppe Mazzini
ha vergato pagine fondamentali in nome dell’anti-utilitarismo e dei «doveri
dell’uomo», da opporre alle astratte teorie liberali. Sulla scia di queste
intuizioni si pose un gigante della filosofia come Giovanni Gentile, che fece
dell’ antindividualismo e del primato civile italiano i cardini del Regime:
dalla Dottrina del fascismo (1932) fino al Codice
Civile (1942), dove
la Carta del Lavoro figurava simbolicamente quale introduzione. «Il lavoro non è
una merce» e la battaglia «contro la demonia del denaro» erano non a caso il
pane quotidiano della gioventù più spregiudicata e interessante dell’epoca, che
ebbe in Nicolò Giani e Berto Ricci i nomi di punta.
«La comunità
sociale, lo Stato, non è l’organizzazione creata per assicurare il benessere
dell’individuo mortale nella sua limitata vita, ma è anzi la costruzione cui
l’individuo è dedicato, in un continuo superamento di sé stesso, e che deve
essere fatta vivere con la volontà e lo sforzo in ogni istante. Lo Stato
consiste e vive nella coscienza, nell’azione, nel lavoro dei cittadini: e
questa continua opera è l’attuazione di un dovere in quanto costituisce il
superamento della particolarità individuale per realizzare quel più alto valore
che si configura nella vita perenne della Nazione, e nel quale l’uomo attinge
davvero la propria umanità. Il lavoro è insomma l’opera stessa con cui l’uomo
contribuisce alla costruzione di quello Stato di cui è parte». Parole di
Agostino Nasti, giovane collaboratore di Bottai. Ancora oggi ossigeno vitale
contro l’appiattimento culturale, la finanza e la crisi. A meno che qualcuno
pensi di cambiare le cose raccogliendo firme con le pettorine Greenpeace e
UNHCR indosso, mentre whatsappa con l’ultimo iPhone.