venerdì 1 marzo 2013

ILVA: basta coi morti dentro, basta con gli sciacalli fuori


Pensando a Ciro (e agli altri caduti dell’acciaio)
Oggi è stata una giornata orribile.
La terza giornata orribile, in una manciata di mesi.
Non è possibile. Non è pensabile, ipotizzabile, accettabile che nell’anno di grazia 2013 tre vite in poche settimane possano essere spazzate via dalla morte solo perché stavano lavorando. Perché stavano facendo il proprio dovere. Perché, orgogliosamente, si guadagnavano il pane.

Tutto questo non ha senso. O almeno, non ha più senso. Tutto questo è diventato ancora più assurdo perché, ironia e cattiveria della sorte, tanti assistono a tragedie come quella che ieri mattina alle 5 ha portato via Ciro, un ragazzo di Portici arrivano come tanti altri nei decenni a Taranto per trovare lavoro, come un film di fantascienza. Un fatto lontano, sconosciuto, ancestrale. La morte sul lavoro: e poi, dove? In fabbrica. E cos’è la fabbrica? Perché, nel 2013 abbiamo ancora bisogno di fabbriche? Perché, nel 2013 esistono ancora gli operai?
Maledizione.
Quello che molti non capiscono, e che gli ambientalqualunquisti neppure provano a capire, è che la mia (e di tantissimi altri) battaglia per restituire onore alla storia dell’acciaio e ai lavoratori dell’industria pesante, non è una giustificazione della tragedia immane delle morti sul lavoro: no, imbecilli, è esattamente l’opposto.
Quando ho scritto AcciaioMare mi si sono parati davanti i fantasmi dei 500 martiri che l’epopea dell’acciaio ha lasciato stesi, nei reparti del Siderurgico. Morti che non hanno mai avuto il giusto tributo, la giusta riconoscenza, la giusta – perdonatemi – santificazione. Provo schifo e orrore per chi, in questi mesi, ha sfruttato ignobilmente queste tragedie per assurde e criminali campagne di desertificazione industriale. Provo orrore per chi oggi mi ha scritto “e tu parli, che difendi quelle inumane condizioni di lavoro”? Ma voi, voi, chi siete? Come vi permettete? Come vi azzardate anche solo a citare per nome gente rispetto a cui voi non valete neppure l’unghia dell’alluce. State zitti, tacete. Il dolore non è roba vostra, voi che il lavoro operaio, l’arte del ben fatto, il senso del dovere, l’avete visto solo da lontano, di sfuggita, magari come scusa per l’ennesimo filmino su qualche scarico delle ciminiere per presentare in Procura l’espostino e giocare agli ecologisti del sabato sera.
State zitti. Fate parlare loro, e solo loro. Quelli che possono. Quelli che sanno. Non quelli che, pur a busta paga, sognano che il Siderurgico chiuda per essere messi a pensione a 40 anni. No: fate parlare quelli che vogliono fare il loro dovere nel migliore dei modi, e che chiedono di lavorare in un ambiente salubre senza il rischio di far schiattare la loro vita per un errore. Quelli, che sono migliaia, quelli che Paolo VI definì “a noi sconosciuti” di fronte a un’umanità ignorata dal resto del mondo, quelli possono parlare. Possono raccontarci cos’è il dolore.
Non le prefiche, non gli ecologisti isterici, non i mantenuti che sognano la cassa integrazione. Quelli no, non sono degni.
Di fronte a questi lavoratori, silenziosi, rispettosi, io preferisco tacere. Ma, nello stesso tempo, continuare a fare ciò che per cui le parole di AcciaioMare sono ruzzolate, liberamente e dolorosamente, come invettiva: denunciare chi scorda il mondo dell’industria, lottare perché siano assicurate condizioni dignitose di lavoro per fare acciaio pulito in un’industria sicura, rivendicare il giusto riconoscimento per le centinaia di caduti che permettono all’ennesimo borghesuccio parassita, all’ora dell’aperitivo, di parlar male del Siderurgico. Una volta ho letto in un blog di una di queste sciampiste ambientalqualunquiste, intitolato se non sbaglio a robe di vagine, l’accusa agli operai di essere dei “piagnucoloni”: magari questa non saprà manco usare l’ago e il filo, e si permette di aprir bocca e usare mani che potrebbero essere utilizzate meglio, magari per spazzare il pavimento.
Oggi è una giornata terribile. E dovrebbero tacere quelli che hanno aggiunto scempio a scempio, quelli che hanno condotto in questi mesi una campagna dissennata che sta seminando morte, oltre che insicurezza, dentro il Siderurgico: non è bello andare a lavorare senza sapere se si andrà avanti il giorno dopo: è inumano, è una tortura inaccettabile. E non è un caso che tre morti siano arrivati da quando l’Ilva è diventata oggetto dei provvedimenti di sequestro, dopo anni di pace riguardo alle morti bianche. Le cose non accadono mai a caso. La disperazione fa brutti scherzi, e semina prima panico e, poi, drammi.
A differenza di qualche pagliaccio, non mi sono neppure lontanamente azzardato a contattare le famiglie dei ragazzi morti in questi mesi. Forse avrebbero capito la mia buona fede, forse no, e allora è stato meglio dedicargli (che altro si può fare, in questi casi) pensieri e parole. Oggi è il turno di un altro caduto. Un altro della lista lunghissima di caduti a cui una città sciagurata non ha mai dedicato né una targa, né una strada. Altrove, la loro storia verrebbe studiata nelle scuole, i loro figli trattati come si conviene, ma a Taranto no: a Taranto ci sono insegnanti che in classe fanno campagna contro il Siderurgico, e ci sono figli di operai a cui qualche compagnuccio urla “tuo padre è un assassino”.
Il senso di vergogna e di rispetto è sparito, da molto tempo, ma non del tutto dileguato.
Quant’è vero Iddio, nei prossimi mesi quella targa la vado ad attaccare io, a Taranto. Non diventerà famosa come la targa di maledizione che tutti i giornalisti a zonzo per lo zoo del dolore hanno fotografato e raccontato. Ma non credo che nessuno avrà il coraggio di staccarla.

di Angelo Mellone