Si è smarrita la fiducia in un miglioramento continuo
All'uomo postmoderno non basta consumare di più.
Ha ancora senso parlare di progresso? Siamo abituati a
pensarlo come una costante universale, la naturale propensione a migliorarsi.
Invece è un'idea relativamente recente, nata in funzione della modernità.
Di
fronte alla scelta improponibile tra salute e lavoro, i cittadini di Taranto
hanno disertato il referendum consultivo sulla chiusura dello stabilimento
siderurgico dell'Ilva: in assenza di un futuro in cui credere, l'idea di
progresso diventa insostenibile.
Il problema semplicemente non si pone per i classici greci e
latini, che vedono nel futuro i segni di un peggioramento da evitare e invocano
il passato, l'età mitica dell'oro da cui l'uomo è precipitato. Platone
considera il presente un momento di decadenza, secondo una teoria della
degenerazione della politica, frutto di un conservatorismo che teme il
cambiamento e sogna il ritorno alla semplicità dell'esistenza. Orazio può
scrivere Damnosa quid non imminuit dies? («Che cosa non rovina il passare dei
giorni?»), nel convincimento che il tempo sia nemico dell'uomo e il domani
infausto. Il costante sguardo volto al passato spiega la difficoltà di uscire
dai limiti dell'esperienza umana, guardare oltre e immaginare il futuro.
Prevale un generale pessimismo e persino in Lucrezio, dove per la prima volta
appare il termine progresso, è accettata la prospettiva apocalittica di un
mondo destinato a finire.
Per trovare un cambiamento bisogna attendere gli albori del
XVII secolo e il filosofo inglese Francis Bacon: nelle sue opere il metodo
induttivo nelle scienze rivela i primi sintomi dello spirito moderno e il fine
della conoscenza è l'utilità (Commodis humanis inservire, «Servire al benessere
dell'uomo»), concetti ripresi da Cartesio e poi da Montesquieu, Voltaire e
Turgot.
In un vecchio libro degli anni Venti, intitolato Storia
dell'idea di progresso (Feltrinelli), lo studioso irlandese John Bury illustra
l'origine dell'idea di progresso, collocandola nel Settecento, al momento dello
sviluppo delle scienze e dell'affermazione della modernità: «L'idea di
progresso umano è una teoria che comprende una sintesi del passato e una
profezia del futuro. Si basa su una interpretazione storica secondo cui gli
uomini avanzano lentamente in una direzione definita e desiderabile, e ne
deduce che l'avanzata continuerà indefinitamente. Questo implica che si
arriverà un giorno a godere di una felicità generale, che giustificherà tutto
il processo della civiltà».
Partita da un'unica matrice illuminista, l'idea di progresso
si viene divaricando lungo il XIX secolo, al seguito di ideologie
inconciliabili. L'idea modernista più marcatamente liberista, sulla via
indicata da Adam Smith, si lega ai principi del mercato, volgendosi al
consumismo. L'altra, nel percorso da Hegel a Marx, radicandosi nel concetto di
storia, punta alla liberazione dal bisogno, all'uguaglianza e al controllo
statale. Entrambe le visioni entrano in crisi nella seconda metà del secolo
scorso: l'una si trova di fronte, oltre ai guasti della mercificazione, il
problema di salvaguardare il pianeta dall'esaurimento delle risorse. L'altra
perde credibilità in seguito al crollo dei regimi comunisti.
La simultaneità di entrambi gli eventi fa sospettare una
radice comune, di fronte alla crisi della modernità e dei suoi principi
fondamentali (le «grandi narrazioni» di Jean-François Lyotard), su cui si
basava l'essenza del moderno: l'affidamento alla tecnica, la speranza di un
continuo miglioramento, le ideologie. In una parola, la fiducia nel progresso.
Che però viene perdendo consistenza di fronte all'incertezza e all'assenza di
riferimenti su cui contare. L'uomo contemporaneo sembra così nuovamente
incapace di andare oltre i limiti dell'esperienza e di guardare con fiducia al
futuro, proprio come i classici. Se non torna con rammarico al passato, è
perché ha smarrito il senso della storia ed è troppo occupato a sopravvivere.
La sua è piuttosto una nostalgia del presente, il disagio indicato
dall'antropologo Arjun Appadurai nel saggio Modernità in polvere (Raffaello
Cortina), provocato dal desiderio per cose mai accadute, che si possono solo
immaginare. Il progresso è superato dal postmoderno, su cui si sono esercitati
a lungo i filosofi del pensiero debole, oppure siamo dinanzi a una diversa
condizione del moderno? Di modernità plurali parla il sociologo Peter Wagner in
Modernità (Einaudi), teorizzando un'idea di progresso che si adegua alle
diverse formulazioni della società attuale.
Le interpretazioni più recenti, molte delle quali tese a
favorire la ripresa di questa idea, ne testimoniano la crisi. Gli economisti
Daron Acemoglu e James Robinson, in Perché le nazioni falliscono (Il
Saggiatore), attribuiscono le ragioni della prosperità al progresso produttivo
di stampo liberista, purché all'interno di sistemi politici democratici,
confortati da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi che, in uno
studio commissionato dall'ex presidente francese Nicolas Sarkozy, La misura
sbagliata delle nostre vite (Etas), propongono di superare il prodotto interno
lordo come indicatore dello sviluppo e di tener conto delle conseguenze
ambientali della crescita. Chi invece confida ancora nelle possibilità della
scienza, come il futurologo Byron Reese, autore del recente saggio Infinite
Progress (Greenleaf), crede che «la tecnologia e Internet pongano fine
all'ignoranza, alle malattie, alla fame, alla povertà e alla guerra».
Il concetto di progresso è tipico del linguaggio critico di
matrice socialista, mentre nel gergo economico occidentale (l'Ocse) si
preferisce il termine sviluppo, col rischio di misurare tutto in termini
quantitativi: tonnellate di merci e manufatti, petrolio estratto, kw di energia
elettrica. Lo stesso processo di acculturazione, secondo la logica positivista,
segue l'esempio dell'industria: il progresso si misura dal numero di libri
stampati o di giornali distribuiti, dalla percentuale di diplomati e laureati,
dal tasso di alfabetizzazione. Ma il dato statistico non fotografa la realtà
nella sua complessità e, soprattutto, non rende conto delle ingiustizie. Il
presente sarebbe migliore del passato per il solo fatto che si consumano più
merci e si possiedono più oggetti.
Le «magnifiche sorti e progressive», che per tre secoli
hanno caratterizzato la storia dell'uomo, si sono arenate sulla soglia della
tarda modernità. L'idea di progresso, più che alimentare il «principio
speranza» di cui parlava il filosofo Ernst Bloch, assomiglia sempre più alla
fine dell'utopia.
di Carlo Bordoni, dal "Corriere della Sera"