di Francesca Varasano
Ho iniziato a leggere Bukowski in prima
liceo, alla fine degli anni ’90 – lo scrittore era venuto a mancare
pochi anni prima, nel 1994. Un qualche compagno di classe aveva sentito
parlare di Post Officee l’aveva preso in prestito in biblioteca: la
versione originale era del 1971 e quella che era arrivata a noi era una
ristampa economica, che ci siamo passati di mano in mano, leggendola con
avidità (va da sè che nel caso in cui la copia in questione non sia mai
stata restituita, ogni riferimento a fatti realmente accaduti è
puramente casuale).
Quando il programma di italiano prevedeva
il Dolce Stil Novo, Petrarca e Poliziano, Bukowski era inaspettato,
rivoluzionario. Ne parlavamo all’intervallo; quando la ricreazione era
finita se ne discuteva nei gabinetti – perché i bagni dei licei italiani
come è noto ne sono il salotto letterario e la tribuna politica.
Bukowski raccontava addirittura Los Angeles quando non c’era nemmeno
Ryan Air a portarci a Londra al prezzo di un paio di jeans nuovi; ne
raccontava il degrado, la rabbia e lo faceva con disprezzo o ironia, e
noi lo capivamo tutto o così ci sembrava: a sedici anni gli scrittori ci
parlano in privato e i libri ci cambiano la vita. E poi: che
grammatica, che stile, che punteggiatura! Niente rime, niente metafore,
poche lettere maiuscole e molte imprecazioni: Post Office non fu per me
che l’inizio di un amore duraturo per l’opera di un autore complesso e
prolifico.
Bukowski ha condiviso con i lettori
un’infanzia dolorosa (Panino al prosciutto) e una profonda vena poetica;
l’alcolismo e la solitudine; il cinismo e la tragica inutilità di molti
lavori dell’età contemporanea, la spaventosa chimera della possibilità
di carriera. Ci ha messo in guardia contro il cosiddetto successo, ha
espresso riserve sulle trappole del posto fisso e l’alienazione delle
masse: è stato l’antitesi della gauche caviar e dei benpensanti. In
povertà, combattendo per farsi pubblicare, scriveva in una Los Angeles
agli antipodi dell’American dream con rabbia e disgusto per alcuni
aspetti della civiltà contemporanea (prima di tutto il mercato del
lavoro), sentimenti vivi più che mai nell’Occidente riemerso dalla crisi
dei mutui subprime.
A vent’anni dalla morte, una biografia
celebra la vita e l’opera di Bukowski: Tutti dicono che sono un bastardo
(edizioni Bietti), di Roberto Alfatti Appetiti.
Il libro prende in considerazione molti
aspetti della vita dello scrittore: dalla travagliata storia familiare
al lavoro da postino alle prime pubblicazioni, dal (difficile) rapporto
con le donne e il femminismo a quello con la corrente letteraria beat
(altrettanto difficile). Ne emerge un ritratto molto umano, lontano dai
clichés e non privo di contraddizioni: nel mondo dell’editoria, Bukowski
sembra incapace di mantenere rapporti amichevoli anche con quei pochi
che lo appoggiano quando non apertamente ingrato e sfacciato, in linea
con il titolo del libro. Anche se le donne vanno e vengono (ma per di
più vanno), un amore immenso ha caratterizzato la vita di Bukowski –
l’amore per la letteratura: profondo e totalizzante, pare essere un
sentimento ideale che ammette pochissimi eletti e non risparmia mostri
sacri (sì a Dostojevskij, no a Gogol’; sì a Fante, no a Shakespeare).
La visione politica di Bukowski è
controversa e radicale, un riflesso della vita e del carattere dello
scrittore: Alfatti Appetiti ne fa un resoconto dettagliato, dedicandogli
un capitolo apposito.
Essere di origine tedesca nell’America
del dopoguerra non era stato facile, nè lo era stato sopravvivere ad un
padre dispotico e violento e ad una forte forma di acne giovanile:
l’adolescenza di Bukowski pone le premesse per un’esistenza ai margini,
da outsider. In questo contesto, una volta all’università, si avvicinerà
a gruppi filo nazisti, naturalmente più a suo agio fra i reietti che
fra i vincenti. Non legge il Mein Kampf nè si cura di Hitler ma ammira
gli eroi di guerra tedeschi e, soprattutto, vuole provocare. Anche più
avanti, presto stanco del fanatismo dei nazisti e lasciata l’università,
ci tiene a mantenere la fama guadagnata: «una sera venne uno studente a
casa mia e dopo alcune birre mi disse: “il mio prof dice che sei un
nazista e che venderesti tua madre per cinque centesimi”. “Non è vero,
mia madre è morta”». Di certo detesta quanto percepisce come ipocrisia
di sinistra e non ha simpatie per il comunismo, ma il credo politico ed
umano di Bukowski non è semplicemente un’ideologia: è il disgusto
profondo per il politicamente corretto, è l’opposizione alla dittatura
del pensiero prevalente, ad ogni costo. Meglio ancora se si può essere
additato come nazista, beffandosi dei benpensanti.
Lontanissimo da queste provocazioni, oggi
Bukowski è per di più un nome a piè pagina per giustificare aforismi di
dubbia provenienza da condividere su Facebook. Una ricerca su Google
per citazioni di e su Bukowski dà circa 165,000 risultati – davvero
mainstream per un autore che si era trovato a suo agio soltanto con gli
emarginati: una biografia sincera e senza reticenze, che raccontasse un
Bukowski appassionato, difficile, a volte anche bastardo era necessaria.
Irriverente, irrispettoso, disincantato e
ironico, non risparmiava le opinioni – alla fine degli anni ’80,
intervistato da una giornalista italiana che gli chiede ovviamente «che
cosa vorrebbe dire al pubblico italiano?», risponde: «di non parlare
così forte e di leggere Cèline».