di Sebastiano Caputo
Chi meglio di Louis-Ferdinand Céline è riuscito a cogliere le sofferenze e le angosce del popolo? Viaggio al termine della notte racconta
la miseria della “gente ordinaria” – per usare un’espressione di George
Orwell -, costantemente tradita nella storia. Tornato a Parigi a causa
di un infortunio che lo impediva di combattere, Céline, con tutta la sua
rabbia, descrive nel suo romanzo la vita quotidiana della metropoli.
Mentre sul fronte si consuma la guerra nelle trincee, in città, la
borghesia “viziosa” intraprendeva ottimi affari. “Mentir, baiser,
mourir”. “Mentire, scopare, morire” scrive brutalmente Céline per
ritrarre lo spirito dell’elite che manipolava le coscienze con grandi
discorsi esortandole a massacrarsi per la République. “Ve lo
dico, piccoli uomini, coglioni della vita […] quando i grandi – di
questo mondo – vi amano significa che vi trasformeranno in carne da
macello” avvertiva spietato. L’essenza del capolavoro celiniano è proprio questo: aver dato voce a quel popolo, eterno, tradito, dominato, misérable. Contestualizzatosi nel conflitto militare, il pamphlet
di Louis Ferdinand Céline ritorna profondamente attuale di fronte alla
guerra economica del terzo millennio. Mentre le forze produttive –
operai, artigiani, allevatori, agricoltori – fanno il lavoro sporco e
mantengono viva la nazione, il ceto parassitario – politici,
giornalisti, intellettuali di regime, speculatori, banchieri – chiede
sacrifici appropriandosi dei meriti. La perversione dialettica di questa
iper-classe sta nel far credere alle classi popolari di difendere i
suoi interessi. Ma tutelare i nuovi valori borghesi non significa
incarnare l’anima profonda del popolo. Ci siamo mai domandati cosa pensa
un allevatore bretone quando la sua nazione deve esportare in Medio
Oriente la democrazia, i diritti umani e il progresso? E un contadino
afgano quando sente parlare di matrimoni gay e adozioni? Un allevatore
sudamericano quando gli economisti avvertono di rilanciare i consumi? Un
artigiano umbro quando vede in televisione il presidente della BCE
esprimersi sulla crescita economica? Un pescatore tunisino quando vede
esaltata qualsiasi forma di libertà? Un operaio polacco quando sente
dire che “ci vogliono le quote rosa in Parlamento”? In fondo aveva
ragione Céline: chi ha la parola “popolo” o “democrazia” in bocca, in
realtà disprezza la “gente ordinaria”. È del filosofo francese Jean
Claude Michéa il merito di aver denunciato la deriva progressista di
questa iper-classe illuminata. Se nel Diciannovesimo secolo la sinistra
(europea) raccoglieva consensi nelle classi popolari, oggi queste,
votano in maggioranza per le forze populiste (vedi Movimento 5 Stelle e
Lega Nord in Italia o Front National in Francia). Da culla
elettorale si è trasformata in una classe giudicata reazionaria,
provinciale, oscurantista perché ostile ai valori borghesi e
all’assolutizzazione del sistema capitalista che oggi viene realizzato
nel nome del Progresso e del Cambiamento. Ai “populisti” – demonizzati
dal circo mediatico – si contrappongono i “democratici” (l’elite).
Eppure sia Engels che Christopher Lasch consideravano il “populismo”
come una componente fondamentale per la democrazia intesa come
“plebiscitarismo” (Weber) e non come differente forma di tirannia. Ma
trionfano i cosiddetti “democratici” e i loro valori borghesi, e il
popolo per l’ennesima volta, è messo in disparte.
Post Scriptum: si dirà che gli
intellettuali, gli scrittori, i filosofi, sono organici all’iper-classe
parassitaria (producono concetti e non materia). È vero, come del resto
lo era anche il clero nell’Ancien Régime. Ma ogni artigiano
delle idee conserva in sé un doppio spirito di classe. Marx e Nietzsche
per esempio? Borghesi che si sono rivoltati contro la loro estrazione
sociale per occuparsi delle ingiustizie dell’umanità. Marx e Nietzsche
si sono emancipati dal tribalismo di classe per cogliere l’universale.
Non è un caso che il più grande avversario della televisione sia stato
Pier Paolo Pasolini. La detestava perché sviliva l’operaio facendolo
apparire come un analfabeta non cogliendo tutto ciò che non era verbale
come la voce, la fisicità, il corpo, la manualità, i sentimenti.