“Notre vie est un voyage
Dans l’Hiver et dans la Nuit
Nous chercons notre passage
Dans le Ciel où rien ne luit”
Con
questi versi, presi da una canzone delle guardie svizzere di fine Settecento,
Louis Ferdinand Auguste Destouches, più noto come Celine, comincia il suo
“Viaggio al termine della notte”. Romanzo eclettico, cupo, ritratto pessimista
di una società in disgregazione e colma di ipocrisie, composto da uno scrittore
che pagherà il suo antisemitismo, e pure altre scelte politiche, con la
marginalizzazione e l’esclusione dal grande circolo culturale ereditato dalla
Francia e dall’Europa del dopoguerra. Un intellettuale, Céline, che indipendentemente
dal merito politico delle proprie posizioni, si può definire fortemente
anticonformista, avverso alle impalcature che reggono la società liberale del
Novecento, sublime nella ricerca di un linguaggio al tempo stesso diretto e
ricercato, pure ansiogeno nella sua anarchia espressiva.
Leggendolo, viene da
chiederci se c’è ancora spazio per uno scrittore così nella cultura europea, ma
soprattutto in quella italiana. Viene da domandarsi se c’è spazio per una
persona intimamente anarchica, capace di oltrepassare le barriere del
politicamente corretto, dell’ipocrita, del piattume ideologico nel quale siamo
immersi; e viene pure da rispondersi, con un no, dato che ciò che oggi viene
dipinto come trasgressivo e profondamente alternativo reca drammaticamente con sé
i crismi di un pensiero melenso, prevedibile e stancante. Il trasgressivo e il
gusto della trasgressione oggi paiono coincidere con una battuta di Crozza, con
una vignetta di Vauro, con la risatina facile, con la sempiterna gag su
Berlusconi, con la ridicolizzazione dell’elettore leghista e la
marginalizzazione di chiunque, in ultima analisi, non si pieghi al pensiero
unico. Le vette dell’ideologia nazionale paiono coincidere coi Saviano, con le
De Gregorio, con gli Scalfari, i Maltese. Personalmente leggo da molto ciò che
proviene da questi lidi. Talmente tanto che ormai saprei con assoluta
precisione anticipare il parere o un discorso di uno di questi personaggi su
qualunque tema, con la certezza pressoché matematica di colpire nel segno e di
vedere autenticato, di lì a poco, il mio piccolo e triste presagio
intellettuale.
Il
problema è proprio il pensiero unico, quell’alveo nel quale paiono incanalarsi
molti degli odierni pensatori, degli uomini di spettacolo, degli intellettuali
o presunti tali, un fiume in cui si galleggia perennemente nella stessa acqua
stagnante. Contrariamente a quel che si può pensare, non c’è davvero spazio per
la costruzione di una alternativa reale e tanto meno ve n’è per i suoi
interpreti. Facilissimo sollevare la matita in un pomeriggio domenicale,
piazzando l’hashtag facile dopo le morti di Charlie Hebdo, pare però davvero
difficile scorgere una reale alternativa a casa nostra, una satira anti-sistemica, una critica realmente controcorrente. E’ un viaggio al termine
della notte anche questo, la notte della vivacità intellettuale defraudata, la
notte dell’ardore spirituale ormai sopito da una televisione gracchiante, da un
editoriale domenicale da salottino romano o da altri continui furti a ciò che
di più bello possiede il popolo italiano, ovvero quell’anarchia innata e
spontanea, intimamente capace di ribellarsi a tante imposizioni, quel sano
egoismo pure intellettuale che pare voler essere definitivamente defraudato e
cancellato. Chissà, ce l’avrà chiesto l’Europa, dalle colonne di Repubblica.
Restando
in Italia, ho salutato con favore la nascita del quotidiano “La Croce” di Mario
Adinolfi perché nel suo piccolo riprende questa capacità, quella di dar voce
finalmente ad un qualcosa di contrario, di antitetico rispetto al corso di quel
fiume fatto di banalità di cui si parlava. Sarà difficile cogliere in un
giornale filo clericale, d’impostazione cristiana e identitaria una capacità di
andare controcorrente che normalmente ci si aspetterebbe da fogli più roboanti,
anticlericali, laici e laicisti, antipapali, meglio se collocati a sinistra
strizzando l’occhio a Civati. Sarà pure difficile cogliere tutto ciò in un
foglio diretto da Adinolfi. Eppure è così. Professarsi cristiani, professarsi
religiosi al giorno d’oggi è un atto di coraggio fortemente rivoluzionario. E’
rivoluzionario nella sua scelta e nella sua direzione, palesemente contraria ad
una globalizzazione imperativa e in primis intellettuale, contrario ad un
andazzo laicale che sempre più assume i toni di una religione, contrario alle
discriminazioni di cui spesso sono vittime i credenti, che pare sempre debbano
scusarsi di qualcosa, di un loro presunto ritardo (fisico e sociale) o di una
incapacità di stare al passo coi tempi. Non è solo una rivoluzione nei
confronti di ciò che oggi i cristiani subiscono nel mondo, è una rivoluzione
anche nei confronti di un ceto intellettuale che fa coincidere con la
dimenticanza delle proprie radici culturali il progresso più puro, sempre in
nome di qualcosa che sta oltre, che sta fuori, più avanti, e che il popolino
non comprende. Rivendicare le proprie origini, la propria cultura e le proprie
radici ad oggi è un atto fortemente controcorrente. Lo è difendere i dialetti,
le dimensioni regionali, lo è difendere il patrimonio nazionalpopolare e il suo
diritto ad esprimersi in tutti i modi, specialmente quando ciò non piace a chi
ama bollare il dissenso come populista, retrogrado, o peggio. Ben vengano i
giornali di ispirazione cattolica, ben vengano gli Adinolfi, ben vengano i
difensori del diritto di pensarla diversamente. Gli scherzi a Brosio, le Femen
in piazza, il femminismo a tutti i costi, le unioni civili omosessuali come
nuova frontiera spirituale, le accuse di omofobia o di altre fantomatiche paure
calate come il prezzemolo, l’inascoltabile stigma del “cattofascismo”, la
denigrazione della famiglia ormai hanno stancato. Pure più nei modi che nei
contenuti. Non se ne può più del sessantottismo istituzionalizzato, delle donne
che dal corteo sono salite in cattedra, degli uomini che dal megafono e
l’eskimo sono passati al microfono e la giacca da conferenza. C’è un dannato
bisogno di aria, e qui le finestre non le spalanchiamo da quasi cinquant’anni.
Da agnostico, dico ben vengano i cattolici, ben venga Cristo, Adinolfi e
ben venga La Croce, se può liberarci da tutto ciò. Venga, se possibile, con un
piccolo appunto: evitando di riproporci la solita, bolsa celebrazione del
papafranceschismo de noantri, da lasciare a chi nella Chiesa vede una sorta di
redazione dell’Espresso munita di papalina. La chiesa è altro, il cristianesimo
sa e può essere più trasgressivo. Ed è quello di cui abbiamo bisogno.
(Di Alessandro Catto, da Blog - Il Giornale)