Roma, 9 feb – È capitato una volta a chi scrive di
telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università
romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime
delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.
Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo
per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in
occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università,
sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche
un dipartimento di studi ebraici”.
Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva
la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27
gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna
iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche.
Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa
commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto
con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo
ulteriormente.
A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di
quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per
riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di
quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il
cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di
comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine
orientale.


Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una
mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in
prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa
semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del
Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del
confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe
darsi una calmata.

(Di
Adriano Scianca- Da “Il primato nazionale”)