La conquista della città di Sirte, a metà strada tra Tripoli e Bengasi,
da parte dei jihadisti dello Stato Islamico, ha riacceso prepotentemente i
riflettori su quel che resta della Libia. A meno di 200 miglia nautiche dalle
coste italiane ci sono i tagliagole in nero, gli stessi delle decapitazioni,
dei video shock in stile Hollywood, insomma i seguaci di Al-Bagdadi che da più
di un anno e mezzo tengono in scacco tutto il Medioriente. Eppure la conquista
di Sirte non è un fulmine a ciel sereno. Da più di tre anni la Libia è uno
stato fallito in piena anarchia, preda di signori della guerra locali, gruppi
islamici radicali ed ex generali del regime in lotta gli uni contro gli altri
per il potere. Da quando i gruppi di ribelli, inizialmente dipinti come laici-moderati
da parte dei media nostrani poi improvvisamente apostrofati come islamici
radicali, hanno detronizzato il colonnello Gheddafi, grazie alle armi
paracadutate dal governo francese e ai raid con i missili Tomahawk della US
Navy, la situazione è andata peggiorando di giorno in giorno. Di fatto la
guerra non è mai finita anzi, il 20 ottobre del 2011, giorno della morte del
colonnello, può essere considerata la data di effettivo inizio delle ostilità.
Da allora il paese è precipitato nel caos, continui cambi di governo, due
parlamenti in due città diverse, entrambi, a loro dire, depositari dello
spirito rivoluzionario del 2011. Ad est, vicino al confine egiziano, c’è il
governo di Tobruk, riconosciuto internazionalmente e definito antislamista. Ad
ovest ci sono i rivoluzionari, in parte islamisti, che non riconoscono il
parlamento dell’est, quello di Al-Thinni e del generale Haftar.
Questo fino a un anno fa, quando sulla scena sono piombate le milizie di quello che poi diventerà lo Stato Islamico che, in pochi mesi, ha sbaragliato entrambi i fronti, conquistando Sirte e minacciando di marciare su Misurata. Ma la somalizzazione della Libia ha ben altri responsabili e fa una certa impressione leggere l’ultima intervista rilasciata da Gheddafi al Corriere della Sera in cui il colonnello con parole quasi profetiche avvertiva l’Occidente: “se si minaccia, se si cerca di destabilizzare, si arriverà alla confusione, a Bin Laden, a gruppuscoli armati. Migliaia di persone invaderanno l’Europa dalla Libia. Bin Laden verrà ad installarsi nel Nord Africa e lascerà il mullah Omar in Afghanistan e in Pakistan. Avrete Bin Laden alle porte”. Parole che fanno una certa impressione perché riescono a descrivere in maniera quasi esatta la situazione odierna. Le responsabilità di quello che accade sono tutte sulle spalle dell’Occidente, Francia e Stati Uniti in primis. L’avidità e l’invidia dell’ex presidente Sarkozy hanno trascinato mezzo mondo sull’orlo del baratro e aperto le porte agli uomini di Al-Bagdadi verso l’Italia e quindi verso l’Europa. Lo smantellamento dello stato libico è stato uno degli errori geopolitici più grandi dell’ultimo ventennio, errore che le potenze “democratiche” e colonialiste hanno provato a replicare con la Siria, cosa che avrebbe portato altra destabilizzazione se non fosse stato per il veto russo. Con le spalle al muro l’Occidente, per bocca del ministro degli esteri italiano Gentiloni, fa quello che gli riesce meglio: invoca la guerra, una soluzione piena di interrogativi.
L’Italia, che da questa situazione di totale anarchia è la prima a
rimetterci, come sempre si è svegliata troppo tardi. Per anni la questione libica
è stata tenuta in secondo piano, snobbata in favore delle beghe di politica
interna, senza proporre alcuna soluzione a riguardo. Il nostro paese, invece di
porsi come stato guida per la transizione, ha lasciato la palla nelle mani dei
francesi che dalla somalizzazione della vecchia Jumahiriya hanno tratto enorme
vantaggio in termini economici ed energetici. Nessuna autocritica ovviamente,
tantomeno da parte dell’ex governo Berlusconi che oggi benedice la guerra
contro le milizie islamiste ma che, nel 2011, contribuì in maniera decisiva al
regime change, fornendo aerei e basi per attaccare il vecchio amico Gheddafi,
gettato via come una scarpa vecchia da quello che considerava il più forte
alleato in Europa. Le colpe sono solo nostre, o meglio dei nostri governanti
che hanno pensato di sbarazzarsi dei soliti scomodi nemici armando la mano dei
fondamentalisti. I nodi, come dimostra la tragedia libica, vengono tutti al
pettine. L’autocritica delle classi dirigenti europee e statunitensi è un
inizio ma non basterà per scrollarsi di dosso la responsabilità di quanto sta
accadendo.
(Di Alessio Caschera – Da “L’intellettuale dissidente”)