Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo
morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el
Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure
per fecondare l’Africa.
Sarà tutto tempo perso, dunque,
sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel
disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà
spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar
Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha
saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi
dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come
i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein
che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle
principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al
collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire
il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu
dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.
Come sanno morire i nostri
nemici, nessuno. L’unica cruda
verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’
veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così
forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per
procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non
sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in
appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta
specializzata.
Come sanno morire i nostri
nemici, nessuno. Quando gli
eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il
Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella
storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a
nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per
accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar,
restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò
all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse
preghiera e romitaggio.
Come c’erano una volta i
nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la
vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne
facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che
produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci
sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro
l’onore delle armi, offrire loro un sudario.
Sempre hanno saputo morire i
nemici. E tutti quei
corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della
nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù
Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti,
tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi
al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e
urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa
generosità, mette a nudo la nostra menzogna.
A ogni pozza di sangue
corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che
parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di
Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla
un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San
Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che
fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche
Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere
solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe
cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il
nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare
l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli
Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.
(Di
Pietrangelo Buttafuoco – Da “Il Foglio”)