mercoledì 11 marzo 2015

C'era una volta il male americano

di Giovanni Pucci, da L'intellettuale dissidente

C’è un’avversione che in Italia si fa sempre meno sentita: quella rivolta contro il modello culturale, la politica estera ed economica degli Stati Uniti d’America. Non è sempre stato così. Al tempo della guerra fredda (quando i partiti avevano ancora una funzione e non erano esclusivamente liste elettorali e comitati d’affari) c’era stabilmente nel nostro Paese un blocco sociale che si rifaceva al modello sovietico, sullo scacchiere mondiale alternativo a quello americano.


Questa vasta area non si limitava a votare il Pci mantenendolo costantemente oltre il 30% dei consensi ma aveva forti influenze nei luoghi decisionali e di produzione e diffusione del sapere, come le scuole e le università, nei media cartacei, televisivi e radiofonici. Tutto ciò, almeno a livello superficiale, contribuiva alla diffusione di un sentimento antiamericano, che rivestendo una fetta consistente della popolazione e una buon parte della sua intellighentsia, aveva una sua legittimità e non era relegato a pochi emarginati considerati con un sorriso di sufficienza dall’opinione pubblica. Invero, una certa dose di antiamericanismo si poteva trovare nella base militante dell’Msi, in special modo nelle sue organizzazioni giovanili o in organizzazioni extraparlamentari che non si riconoscevano nella visione estera ufficiale (quella sì, assai atlantista) del partito neofascista. Questo antiamericanismo, seppur ultraminoritario rispetto al primo, esisteva ed aveva una sua dignità e ragione d’essere nome di un’Europa vista come terza forza da contrapporre ad ambedue i sistemi che si spartivano allora il mondo, cioè quello capitalista e quello comunista.
Ora come ora invece, l’opposizione all’influenza americana (che forse ormai è talmente invasiva da passare paradossalmente in secondo piano?) è pressoché scomparsa dal panorama politico italiano. Con il crollo del Muro e la fine della divisione del mondo in due blocchi, quasi nessuno ha voglia d’affannarsi a contrastare l’unica superpotenza rimasta. Gli ex comunisti ortodossi di una volta, perso il faro e i rubli di Mosca, si sono in fretta uniti alla schiera che osanna ‘la più grande democrazia del mondo’ e ‘il Paese della libertà’. Di uscire dalla Nato, un tempo leitmotiv dei ‘rossi’, non se ne parla neanche. E così le 113 installazioni militari sul suolo italiano dei nostri alleati rimangono beatamente al loro posto (con tutto il correlato che ne comporta come l’inquinamento elettromagnetico e l’arroganza del personale americano sulle popolazioni autoctone), con l’apparato bellico pronto a scattare per esportare un po’ di democrazia, naturalmente anche a scapito dei nostri sempre più risicati interessi nazionali, vedasi guerra alla Libia del 2011. D’altro canto l’occupazione militare non è di certo l’unico segno dell’ingerenza statunitense.
La colonizzazione culturale ha raggiunto livelli così disarmanti che ormai si fa fatica anche a pensare che di modello culturale ne possa esistere un altro. Il 90% dei film che escono nelle nostre sale cinematografiche è di marca hollywoodiana, i format televisivi in onda sui nostri canali vengono tutti da oltreoceano e veicolano una deculturazione spaventosa. Nelle grandi e medie città le plebi (che sono sempre più ‘multiculturali’ e ‘multietniche’ come recita lo spartito dell’american way of life) vestono esclusivamente indumenti sintetici e jeans, vedono il Mc Donalds come meta ideale e si spengono sugli smartphone. Il modello aggregativo di riferimento è la gang e il consumo di droga (a proposito indovinate qual è il primo Paese al mondo consumatore di stupefacenti?) viene considerato assolutamente normale.
Per quanto riguarda l’asservimento politico delle nostre cosiddette classi dirigenti meglio stendere un velo pietoso. Non crediamo neanche che le amministrazioni USA debbano muoversi per imporsi: i nostri fanno a gara per essere sciuscià. Quando per tutta una serie di irripetibili circostanze viene fuori un soggetto politico non dico indipendente ma che cerca un po’ di autonomia, ne trovano a bizzeffe di servi pronti a defenestrarlo (vedasi vicenda Wikileaks con i cablogrammi che trovavano irritanti i tentativi fatti dal governo Berlusconi IV  verso la Russia e la Libia per l’emancipazione energetica dell’Italia e la poi rovinosa caduta dell’esecutivo per la defezione dei suoi ex alleati). In campo economico non mancano poi le acquisizioni da parte di colossi a stelle e strisce di pezzi storici della produzione italiana come Indesit, Negroni, Simmenthal, Gruppo Fini, Splendid, Saiwa, Ruffino, Poltrona Frau. I campi di schiacciante predominanza americana sull’Italia e sull’Europa tutta sono così tanti e così strategici, basti citare il satellitare e il campo dei motori di ricerca su internet, monopolizzato da Google, che ci si trova in una tale posizione di subalternità che è difficile immaginare anche a lungo termine un’inversione di rotta.
Ed forse perché la situazione è così ineluttabile che si è smesso anche di denunciarla. Le invettive contro i servi di Bruxelles hanno sostituito quelle contro i servi di Washington. L’ondata euroscettica, che accontentandosi di far leva sugli umori popolari non ha voglia di andare alle cause prime della attuale e tragica situazione dei popoli europei, monta sempre di più. C’è la disoccupazione? E’ colpa dell’Ue. C’è la crisi economica? E’ colpa dell’euro. C’è immigrazione massiccia e non più tollerabile? Colpa di Bruxelles. In realtà non si capisce bene cosa dovrebbe cambiare passando da una moneta emessa da una banca privata per interessi privati con sede a Francoforte ad una moneta emessa da una banca privata per interessi privati con sede a Roma. L’Ue è totalmente da riformare e non  rappresenta degnamente il mito dell’Europa Unita. Ma negandola, quasi fosse una sorta di transfert dal ‘nemico principale’, ci si preclude così l’unica opzione per l’emancipazione delle nostre genti ovvero l’unificazione politica continentale, per un ritorno impossibile a Stati che ormai non esistono più, se non nella loro funzione di amministratori per conto d’altri. Che sono sempre gli stessi da ormai settant’anni.