(Di Adriano Scianca – Da “Il primato nazionale”)
Sta creando un certo dibattito, in Francia, il libro del giornalista
Jack Dion, intitolato Le mépris du Peuple (il
disprezzo del popolo), che ha per sottotitolo: “Come
l’oligarchia ha preso la società in ostaggio”. Per Dion, i partiti, ma
soprattutto i partiti di sinistra, tendono sempre più a vedere il popolo come
un nemico. È la “prolofobia”, la paura dei proletari (gli “sdentati”, come pare li chiami
nell’intimità Hollande).
Dion è il benvenuto: il Primato
nazionale lo dice da un anno.
Speriamo che gli editorialisti dei giornaloni di
casa nostra, sempre pronte a gridare al pogrom in qualsiasi rivolta spontanea nelle periferie delle nostre città, leggano il libro e facciano un
bell’esame di coscienza. Anche se sappiamo che pochi faranno la prima cosa e
nessuno la seconda. L’odio delle oligarchie nei confronti del popolo è del
resto un fenomeno più complesso, che va molto al di là della mera questione
sociale.
Riassumendo in una formula, relativa alla nostra
nazione, possiamo dire questo: le élite odiano l’Europa da un punto di vista spirituale, l’Italia
da un punto di vista culturale e la classi povere da un punto di vista sociale.
Su queste tre direttrici viaggia la secessione delle élite dal popolo.
Le oligarchie sono innanzitutto anti-europee. Europeiste, rispetto alla Ue, ma
anti-europee rispetto all’Europa come forma. È un odio sordo, talvolta inconscio,
ancestrale, senza parole, talora invece esplicito e dichiarato. È l’odio per le
lingue europee, per il pensiero europeo, per l’arte europea, per i volti degli
europei stessi. Gran parte delle tendenze culturali degli ultimi 70 anni, in
ogni ambito dello scibile umano, sono ispirate dalle “tre
D” denunciate da Zemmour (ma
in un senso ben più profondo da quanto inteso dal saggista francese): “derisione, decostruzione, distruzione”. Si è
disarticolata la lingua, la filosofia, l’arte, l’architettura. Le élite
cosmopolite odiano tutto questo. Le fa sentire a disagio, così come quel leader
della sinistra francese che dichiarò di non poter vivere in un quartiere di
soli bianchi con gli occhi azzurri.
Le oligarchie odiano poi l’Italia da un punto di
vista culturale. L’asse su cui si è fatta la nazione, Risorgimento-Grande Guerra-Fascismo, le vede ora
marginali, ora apertamente all’opposizione. Le culture egemoni nel dopoguerra,
quella cattolica e quella comunista, hanno entrambe motivi di risentimento nei
confronti del processo che ha portato l’Italia all’unificazione e sono entrambe
al fondo internazionaliste. Da qui deriva l’atavica esterofilia delle élite italiane, la loto tendenza
al disfattismo, al masochismo, all’autodenigrazione, cosa che in altre nazioni
pure egualmente decadenti è del tutto sconosciuta. Questa idea per cui certe
cose accadano “solo in Italia”, per cui chiunque sta meglio di noi, sembra
veramente dura a morire e culmina nel vecchio progetto dalemiano del “paese normale”. Una espressione in cui ci sono
almeno due sbagli: voler fare della nazione un “paese” (cioè un’entità
collettiva spoliticizzata, innocua, simpatica, folklorica) e renderlo poi
“normale” (ovvero uniformarlo agli standard politico-civili delle nazioni
anglosassoni e protestanti in nome di un civismo d’accatto).
E poi c’è, appunto, l’odio per i poveri puro e
semplice, che però si innesta sul tronco delle altre due tendenze, dato che non si odiano i poveri tout court, solo quelli autoctoni. I veri esclusi, i veri senza voce sono
gli appartenenti alle classi popolari indigene, dato che i miserabili che
vengono dagli altri continenti trovano sempre un politico, un regista, un
editorialista, un artista di transavanguardia, un filosofo pronto a far loro da
portavoce. Noi, invece, siamo soli. Circondati dall’odio delle élite.