(Di Antonio Martino – Da “L’intellettuale dissidente”)
Il passaggio in mano cinese della Pirelli costituisce l’ultimo capitolo,
in ordine cronologico, dell’impressionante declino industriale che attanaglia
l’Italia da almeno un ventennio. Un Paese che nel 1990 era la quinta potenza
economica mondiale, si vede oggi costretto a vendere a prezzo di sconto il
proprio sistema produttivo, a causa di unacrisi paralizzante e, apparentemente,
infinita. Come sempre, l’analisi del passato permette una comprensione globale
del fenomeno, osservando la sua evoluzione nel tempo.
Il Capitalismo Italiano ha costituito, sin dalla sua nascita, un unicuum rispetto ai contemporanei capitalismi
europei. Seppur preceduto da gloriose esperienze mercantili e finanziarie
durante il MedioEvo e la prima età moderna (basti ricordare i banchieri
Fiorentini e Lombardi, i mercanti di Venezia e Genova), il fenomeno
capitalistico nostrano è nato povero, depotenziato e imbelle. Fino alla fine
della Seconda Guerra Mondiale, nonostante tentativi di industrializzazione
nell’Italia Settentrionale, il paese non aveva una struttura produttiva di
livello avanzato. Durante il Ventennio Fascista, specie dopo il lancio della
politica autarchica, si erano poste le premesse per una definitiva rivoluzione
Industriale nostrana: tra i più arditi progetti di Mussolini v’era, infatti, il
decentramento dei complessi produttivi della Valle del Po nel centro Italia e
una massiccia creazione di fabbriche e insediamenti nel Mezzogiorno. Il Duce,
che da vecchio socialista non nascondeva il disprezzo verso la grande
borghesia, aveva intuito l’importanza centrale dell’intervento pubblico come motore per l’effettivo salto di qualità
industriale. Tutto ciò rimase sulla carta per lo scoppio della guerra: una
volta che essa finì, l’Italia dovette affrontare il cambiamento
istituzionale affidandosi alla nuova Repubblica democratica. La classe dirigente
che guidò la Ricostruzione,
in larga parte d’estrazione democristiana, mise in atto una serie di
provvedimenti che si rivelarono essenziali per il mitico boom economico. Se nel 1958 gli
occupati dell’industria superarono, per la prima volta, quelli dell’agricoltura,
evidentemente qualcosa stava cambiando. Da allora fino alla fine degli anni
Ottanta, nonostante le crisi petrolifere, il terrorismo, l’inflazione, la
crescita del PIL italiano e della produzione industriale sarà lineare,e gli
Italiani godranno d’un benessere sconosciuto in precedenza. Il settore
secondario italiano, lungo quello straordinario periodo, è composto da attori
diversi ma ugualmente produttivi e dinamici: le aziende del gruppo IRI e
gli enti economici come ENI, ENEL, SIP, Italsider, Alfa Romeo, SME; i colossi
dell’industria privata come FIAT, Olivetti,Piaggio, Falck, Montedison,
Pirelli; le numerosissime piccole e medie aziende che, continuando la
tradizione artigiana, riescono a portare il made
in Italy in settori di alta
qualità (moda, tessuti, meccanica)
Di tutto questo, come è purtroppo noto, rimane poco o nulla. Il
capitalismo italiano, dimostrando, ancora una volta, la propria deficienza, è
riuscito a danneggiare irrimediabilmente il sistema produttivo Italiano,
approfittando della crisi politica successiva al crollo del muro di Berlino e
alla fine del Comunismo. Cavalcando Tangentopoli, sfruttando la stampa, il
Capitale Italiano ha avviato il sabba delle privatizzazioni, con la conseguente
dispersione dell’ingente patrimonio pubblico. Con la crocifissione in diretta
TV della classe dirigente della Prima Repubblica, il salotto buonodell’economia
italiana è divenuto il padrone incontrastato del paese. L’entrata nell’euro, la
fine della sovranità nazionale, l’asservimento alla finanza, sono tutte
conseguenze provocate dai nostri capitani d’industria, esponenti di quello che
è, in definitiva, uncapitalismo di straccioni.