giovedì 26 marzo 2015

Capitalismo di straccioni

(Di Antonio Martino – Da “L’intellettuale dissidente”)
Il passaggio in mano cinese della Pirelli costituisce l’ultimo capitolo, in ordine cronologico, dell’impressionante declino industriale che attanaglia l’Italia da almeno un ventennio. Un Paese che nel 1990 era la quinta potenza economica mondiale, si vede oggi costretto a vendere a prezzo di sconto il proprio sistema produttivo, a causa di unacrisi paralizzante e, apparentemente, infinita. Come sempre, l’analisi del passato permette una comprensione globale del fenomeno, osservando la sua evoluzione nel tempo.

Il Capitalismo Italiano ha costituito, sin dalla sua nascita, un unicuum rispetto ai contemporanei capitalismi europei. Seppur preceduto da gloriose esperienze mercantili e finanziarie durante il MedioEvo e la prima età moderna (basti ricordare i banchieri Fiorentini e Lombardi, i mercanti di Venezia e Genova), il fenomeno capitalistico nostrano è nato povero, depotenziato e imbelle. Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nonostante tentativi di industrializzazione nell’Italia Settentrionale, il paese non aveva una struttura produttiva di livello avanzato. Durante il Ventennio Fascista, specie dopo il lancio della politica autarchica, si erano poste le premesse per una definitiva rivoluzione Industriale nostrana: tra i più arditi progetti di Mussolini v’era, infatti, il decentramento dei complessi produttivi della Valle del Po nel centro Italia e una massiccia creazione di fabbriche e insediamenti nel Mezzogiorno. Il Duce, che da vecchio socialista non nascondeva il disprezzo verso la grande borghesia, aveva intuito l’importanza centrale dell’intervento pubblico come motore per l’effettivo salto di qualità industriale. Tutto ciò rimase sulla carta per lo scoppio della guerra: una volta che essa finì, l’Italia dovette affrontare  il cambiamento istituzionale affidandosi alla nuova Repubblica democratica. La classe dirigente che guidò la Ricostruzione, in larga parte d’estrazione democristiana, mise in atto una serie di provvedimenti che si rivelarono essenziali per il mitico boom economico. Se nel 1958 gli occupati dell’industria superarono, per la prima volta, quelli dell’agricoltura, evidentemente qualcosa stava cambiando. Da allora fino alla fine degli anni Ottanta, nonostante le crisi petrolifere, il terrorismo, l’inflazione, la crescita del PIL italiano e della produzione industriale sarà lineare,e gli Italiani godranno d’un benessere sconosciuto in precedenza. Il settore secondario italiano, lungo quello straordinario periodo, è composto da attori diversi ma ugualmente produttivi e dinamici: le aziende del gruppo IRI  e gli enti economici come ENI, ENEL, SIP, Italsider, Alfa Romeo, SME; i colossi dell’industria privata come FIAT, Olivetti,Piaggio, Falck,  Montedison, Pirelli; le numerosissime piccole e medie aziende che, continuando la tradizione artigiana, riescono a portare il made in Italy in settori di alta qualità (moda, tessuti, meccanica)
Di tutto questo, come è purtroppo noto, rimane poco o nulla. Il capitalismo italiano, dimostrando, ancora una volta, la propria deficienza, è riuscito a danneggiare irrimediabilmente il sistema produttivo Italiano, approfittando della crisi politica successiva al crollo del muro di Berlino e alla fine del Comunismo. Cavalcando Tangentopoli, sfruttando la stampa, il Capitale Italiano ha avviato il sabba delle privatizzazioni, con la conseguente dispersione dell’ingente patrimonio pubblico. Con la crocifissione in diretta TV della classe dirigente della Prima Repubblica, il salotto buonodell’economia italiana è divenuto il padrone incontrastato del paese. L’entrata nell’euro, la fine della sovranità nazionale, l’asservimento alla finanza, sono tutte conseguenze provocate dai nostri capitani d’industria, esponenti di quello che è, in definitiva, uncapitalismo di straccioni.