(Di
Giovanni Balducci – da “Barbadillo.it”)
È noto come il Programma sansepolcrista del 1919
fosse fortemente anticlericale e presentasse addirittura un piano di “svaticanizzazione” dell’Italia mediante il
sequestro di beni e l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. All’adunata di
piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919 a Milano partecipa anche Filippo Tommaso
Marinetti in qualità di leader del Partito Politico Futurista.
L’anticlericalismo di Marinetti ben si sposa con
quello del movimento fascista, anzi è
ancor più radicale di quest’ultimo, come si evince dal manifesto “Contro il
Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni passatismo”, sempre del 1919,
in cui il poeta propone di: «Sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e
quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare
l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra
adatta ove morire lentamente».
Tali dichiarazioni non fanno altro che confermare
quanto già espresso da Marinetti ne L’aeroplano
del Papa, pubblicato nel 1912, in cui il padre del Futurismo
predicava la necessità di «svaticanare l’Italia» e – in tempi non sospetti – di
muovere guerra alla bigotta Austria.
Ma il violento anticlericalismo marinettiano è ben
visibile in nuce già nel celebre Manifesto futurista del 1909, così pregno di quel dinamismo anarchico ed antitradizionale che sarà
la cifra essenziale del movimento futurista, dal quale prenderà il via una
nuova e rivoluzionaria stagione culturale, e che rappresentò, ça va sans dire,
l’antecedente storico non solo di tutta l’arte a venire, ma anche di un nuovo
modo di intendere la vita veloce e disinvolto.
Coevo al Manifesto del Futurismo è il “Manifesto politico per le elezioni del 1909” in cui Marinetti faceva professione di nazionalismo, anti-pacifismo, anti-socialismo ed
anti-clericalismo. Dello
stesso anno è anche l’incendiario romanzo “Mafarka il futurista”, che gli valse
un processo per oltraggio al pudore. Pervaso da suggestioni nietzscheane ed
anti-romantiche, il romanzo culmina con la generazione da parte del
protagonista di un essere dalle fattezze di uccello meccanico, stante a
simboleggiare la volontà di potenza ed il genio creativo dell’artista, temi
cari al filosofo della “morte di Dio”.
A proposito delle concezioni antimetafisiche di
Marinetti, Julius
Evola – che di
metafisica, invece, campava – ricorderà nella sua autobiografia di quando il
poeta, dopo aver letto un suo scritto, gli disse chiaro e tondo che le proprie
idee erano lontane dalle sue più di quelle di un esquimese. Ma si sa, quando
non si crede più nella trascendenza, si finisce spesso col credere a tutto:
così fu anche per Marinetti, che come molti altri positivisti della sua epoca –
pensiamo a Cesare Lombroso, e alla sua passione per i tavolini traballanti –
prese a frequentare medium e spiritisti, stringendo amicizia, tra l’altro, con
la sensitiva e poetessa triestina Nella Doria Cambon, confidente, per altro,
anche di Svevo e di D’Annunzio.
Ma il vitalismo di cui è pervasa l’intera opera
marinettiana non è esente da influenze misticheggianti: quella di Marinetti è però una “mistica della materia”, infatti il
movimento, l’azione, il dinamismo, per Marinetti, non sono che espressioni di
quell’energia bergsonianamente intesa come frutto di uno slancio vitale che
spinge la materia ad evolversi. Egli stesso affermava che ogni sera era solito inginocchiarsi e pregare di
fronte alla lampadina del proprio comodino, perché in essa circolava la “divina
velocità”.
Con l’avanzar degli anni, nondimeno, farà ritorno
alla fede cattolica. Negli
anni ’30 promuove addirittura il movimento dell’“arte sacra futurista”,
sostenendo che: «Solo gli artisti futuristi, che da vent’anni impongono
nell’arte l’arduo problema della simultaneità, possono esprimere
simultaneamente i dogmi simultanei del culto cattolico, come la Santa Trinità,
l’Immacolata Concezione e il Calvario di Dio».
I suoi ultimi scritti, del 1944, sono “L’aeropoema di Gesù”, dove canta
con enfasi palinodica «l’illusione di essere di metallo, mentre si è solo
povera carne piangente», ed il “Quarto
d’ora di poesia per la X Mas” –
scritto poche ore prima di morire – in cui pare destreggiarsi tra il ritrovato
amore per Dio e la passione per l’azione che l’accompagnò per tutta la vita:
«Non vi grido arrivederci in Paradiso – dirà ai combattenti della X – ché lassù
vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora
smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti dunque
autocarri avanti».