domenica 5 aprile 2015

De Benoist: “Il liberalismo? E’ nemico dell’uomo, è nemico delle comunità”

(Di Nicholas Gautier, traduzione di Manlio Triggiani – da “Barbadillo.it”)

Signor de Benoist, ricordiamo la dichiarazione di François Hollande, quando era in campagna elettorale: “Il mio nemico è la finanza!” Oggi, apparentemente è diventata sua amica, come dimostra l’arrivo al comando del banchiere Emmanuel Macron. In merito alla legge che porta il suo nome, la Medef (la Confindustria francese, ndr) doveva sognarla e il Partito socialista (PS) l’ha realizzata. Ciò vi sorprende?

Per nulla. Da quando ha aderito ufficialmente, se non alla società di mercato, quanto meno al principio del mercato, nel 1983, il Partito socialista (PS) ha preso una deriva sempre più verso un liberalismo sociale… sempre meno sociale. Ciò conferma e illustra le parole di Jean-Claude Michéa, secondo cui liberalismo economico e il liberalismo “sociale” o liberalismo culturale, sono destinati a convergere, poiché entrambi procedono da una stessa matrice ideologica, cominciando da una concezione della società percepita come una semplice addizione di individui che non sarebbero legati tra loro che da un contratto giuridico o scambio mercantile, vale a dire l’unico gioco dei loro desideri e dei loro interessi. “Il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) porta in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), in quanto quest’ultima richiede, a sua volta, la liberazione totale del mercato”, scrive ancora Michéa. Al contrario, la trasgressione sistematica di tutte le norme sociali, morali o culturali diventa sinonimo di “emancipazione”. Gli slogan del maggio ’68 come “Gioisci senza restrizioni” o “E’ vietato vietare” erano slogan tipicamente liberali, che vietavano di pensare la vita umana come un bene o come un fine. La sinistra, oggi, dà ancora il meglio di sé nel liberalismo sociale al punto che si è totalmente convertita al liberalismo economico mondializzato.
Il neocapitalismo finanziarizzato e globalizzato, che alcuni insistono a considerare “patriarcale e conservatore” non sarà, in ultima analisi, più rivoluzionario del nostro “socialismo” francese, chiaramente senza fiato?
Si deve essere di una confusa ingenuità per vedere nel sistema capitalista un sistema “patriarcale” o “conservatore”. Il capitalismo liberale si basa su un modello antropologico, che è quello dell’Homo economicus, un essere produttore e consumatore, egoista e calcolatore, teso a cercare sempre di massimizzare razionalmente la propria utilità, vale a dire il proprio migliore interesse materiale e il proprio profitto privato, e su un principio ontologico, che è quella di illimitatezza, cioè di “sempre più” (sempre più commercio, sempre più mercato, sempre più profitti, ecc.). Questa propensione intrinseca alla dismisura lo porta a considerare tutto ciò che può ostacolare l’estensione indefinita del mercato, la libera circolazione delle persone o la mercificazione dei beni, come tanti ostacoli da rimuovere, che si tratti della decisione politica, della frontiera territoriale, del giudizio morale che incita alla misura o della tradizione che rende scettici di fronte alla novità.

Non è che il sistema capitalista si unisce l’ideologia del progresso?
Marx aveva già scoperto che l’avvento del capitalismo aveva messo fine alla società feudale tradizionale, della quale aveva annullato i valori di solidarietà comunitaria “nelle acque ghiacciate del calcolo egoistico”. Osservando che la crescita dei valori borghesi era avvenuta a scapito dei valori popolari come dei valori aristocratici (“tutto ciò che aveva solidità e permanenza se ne va in fumo, tutto ciò che era sacro è profanato”), ha scritto che “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione, quindi le condizioni di produzione, quindi l’insieme dei rapporti sociali”. E’ a questo titolo che parlò del “ruolo eminentemente rivoluzionario” avuto nel corso della storia dal capitalismo, a cominciare dall'espulsione dei contadini dalle società rurali con un processo di espropriazione di massa che ha visto la distruzione del legame più immediato fra il lavoro e la proprietà, con lo scopo di creare un vasto mercato in cui, trasformati in salariati, loro acquisteranno i prodotti del proprio lavoro.

Più vicino a noi, Pier Paolo Pasolini ha detto che, dal punto di vista antropologico, “la rivoluzione capitalistica esige uomini privati di legami con il passato [...] Esige che questi uomini vivano, dal punto di vista della qualità della vita, del comportamento e dei valori, in uno stato, per così dire, di imponderabilità – permettendo loro di eleggere come unico possibile atto esistenziale il consumo e la soddisfazione dei bisogni edonistici. Il capitalismo liberale esige infatti uomini sradicati, intercambiabili, flessibili e che possono essere mobilitati all'infinito, la cui libertà (a cominciare dalla libertà di acquistare, scambiare e consumare) esige che siano slegati dalle loro tradizioni, dalle loro appartenenze e da tutto ciò che potrebbe impedire loro di esercitare la propria “libera scelta”. In questa prospettiva, rompere con le tradizioni ereditate dal passato, rompere con l’umanità precedente, equivale necessariamente a un bene. Da qui la tragica non conseguenza di questi conservatori o “nazional-liberali” che vogliono proteggere sia il sistema di mercato e sia i “valori tradizionali” che questo sistema non finisce di produrre.