venerdì 24 aprile 2015

Nicola Bombacci, l'altra faccia della liberazione

Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della liberazione, la cultura ufficiale si scatena nelle celebrazioni e il mondo politico si ricompatta sotto la sempreverde bandiera dell’antifascismo. Ma il 25 aprile 1945, insieme al Duce non moriva solo la repubblica di Salò erede del Ventennio, ma anche una serie di esperienze e personaggi la cui traiettoria “fuori dagli schemi” è stata dimenticata. Uomini che avevano capito che dietro la caduta del fascismo si celava una trappola: la subordinazione dell’Italia a Stati Uniti e Unione Sovietica e la fine di ogni “sogno socialista”, di cui le riforme mussoliniane del ‘44 erano un piccolo quanto ardito esempio. Nicola Bombacci è stato il più fulgido e allo stesso tempo controverso simbolo di questo mondo, capace di compiere un itinerario unico, dal comunismo al fascismo sempre al motto di «Viva il socialismo!». Un rivoluzionario e un dissidente nel vero senso del termine, perfettamente indicativo dei fermenti che hanno animato il nostro paese nella prima parte del secolo scorso. Passioni che oggi, stretti tra pregiudizi e gabbie mentali, fatichiamo incredibilmente a comprendere. Per questo vale la pena, proprio in questi giorni, ripercorre d’un fiato la vita e le idee di Nicolino, come era soprannominato dai compagni Bombacci. Romagnolo e socialista come Mussolini, fu un importante esponente dell’ala massimalista del PSI. La sua strada e quella del futuro Duce si divisero in occasione del primo conflitto mondiale: Bombacci si schierò contro l’intervento, allineandosi stranamente per una volta alle scelte ufficiali dei capi del socialismo italiano, con cui spesso era in polemica.

Al termine della guerra divenne addirittura segretario del partito, per poi fondare il Partito Comunista d’Italia nel 1921. Anche qui si distinse per le posizioni anticonformiste: prima appoggiò entusiasticamente l’occupazione dannunziana di Fiume, poi propugnò l’avvicinamento del Fascismo all’Urss, nel nome dell’anticapitalismo che caratterizzava entrambe le rivoluzioni. Si trattava di un personaggio scomodo sia per i fascisti avviati alla conquista del potere quanto per i suoi stessi compagni di partito, da cui fu espulso nel 1927. Togliatti, dall’alto della sua cieca ortodossia, addusse quale motivazione la colpa di non essere abbastanza marxista e di volere «tutto e subito». Secondo lui un vero comunista non avrebbe dovuto affidarsi all’«azione diretta» di marca soreliana, ma creare le condizioni per lo sviluppo ed il crollo del sistema capitalista. Curioso che Togliatti non si avvedesse del fatto che l’Urss, ove lui risiedeva ed il comunismo era al potere, fosse all’epoca della Rivoluzione d’Ottobre uno Stato post-feudale. Ma per Bombacci gli spiragli politici non erano del tutto chiusi. Mussolini aveva riconosciuto ufficialmente l’Urss nel 1924, tra i primi leaders europei. Questa scelta, dettata soprattutto da interessi economici, fu accolta con entusiasmo dal fondatore del Partito Comunista d’Italia, che cercò, tra molte difficoltà, di portare il suo contributo ideale all’interno del dibattito culturale italiano. Interessanti a questo proposito le sue posizioni riguardo al corporativismo ed alla Guerra d’Etiopia. Egli riconobbe alla politica economica fascista una maggiore efficacia rispetto ai provvedimenti attuati in Urss, apprezzando i primi risultati raggiunti dal regime. Ancor più sorprendente la sua lettura del conflitto coloniale italiano, che Bombacci descrisse come il naturale proseguimento sul piano geopolitico del conflitto tra «popoli giovani» e plutocrazie capitaliste. Una tesi che portava alla mente le teorizzazioni del capo dei nazionalisti italiani Enrico Corradini, riassumibili nell’equazione: «proletari contro capitalisti = lotta di classe; popoli poveri contro popoli ricchi = nazionalismo», datata 1910.
Nel 1936 l’impegno di Nicolino fu finalmente riconosciuto grazie all’uscita della rivista «La Verità» (traduzione della Pravda sovietica), da lui diretta e punto di incontro di molti esponenti del vecchio mondo socialista. È in questo stesso periodo che Palmiro Togliatti pubblica il famoso «appello ai fratelli in camicia nera», in cui cerca un terreno d’incontro tra comunisti e fascisti sul programma di S. Sepolcro del 1919. Nel frattempo una personalità del calibro del filosofo Ugo Spirito, che vedeva di buon occhio un avvicinamento tra le due rivoluzioni, aveva dato il suo contributo elaborando la teoria della «corporazione proprietaria», auspicando il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, per la definitiva distruzione delle logiche del sistema capitalista. E poi come non menzionare il tentativo di Ivanoe Bonomi, membro storico del parlamentarismo prefascista, di fondare l’«Associazione socialista nazionale», assieme agli ex deputati Bisogni, D’Aragona e Caldara, disposti a collaborare con il regime. Una serie di fermenti quanto mai interessanti e degni di nota, anche se allo scoppio della Guerra di Spagna i rapporti tra Italia ed Urss tornarono più che mai tesi. Pochi anni dopo, nel momento del breve idillio Stalin-Hitler, fu proprio «La Verità» (che continuerà ad uscire pressoché ininterrottamente fino al 1943, nonostante l’avversione degli intransigenti Farinacci e Starace) ad esprimersi favorevolmente a questa convergenza, in un’Italia fascista comprensibilmente disorientata. Già dieci anni prima «Roma e Mosca o la vecchia Europa?» era stato l’intrigante titolo di un lungo dibattito sulle colonne di «Critica Fascista». «Eppure giorno verrà, in cui il sovieto, permeandosi di spirito gerarchico e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale», scrisse Walter Mocchi su «La Verità» del 13 ottobre 1940. Ma la guerra andò in una direzione totalmente differente, fino al disastro del 1943 e la rinascita del Fascismo con la R.S.I.
Bombacci, che non ebbe mai la tessera del PNF, si schierò da subito con la decisione che lo caratterizzava: «Duce, già scrissi in “La Verità” nel novembre scorso – avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di Voi – sono oggi più di ieri con Voi. Il lurido tradimento del re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i componenti di una destra pluto-monarchica del ’22», affermò perentoriamente in una lettera a Mussolini. L’analisi sopra contenuta conteneva grani di verità: liberati dalle «forze della reazione» (la “destra” interna opportunista e conservatrice), i fascisti stilarono i 18 punti di Verona e diedero inizio alla socializzazione, per lasciare ai posteri un messaggio di civiltà. Le realizzazioni furono comprensibilmente incomplete, per ovvi motivi di tempo e l’ostilità di taluni esponenti di governo e dei tedeschi. Inutile dire che Bombacci si batté entusiasticamente a favore delle riforme, impegnandosi non solo nelle fabbriche ma anche nelle politiche della casa. A questo proposito si impegnò per la stesura e l’attuazione del rivoluzionario punto 15 del Manifesto di Verona: «Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il partito iscrive nel suo programma la creazione di un ente nazionale per la casa del popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto. Come primo compito, l’ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie».

Il “canto del cigno” di Bombacci avvenne nel marzo 1945, quando a Genova tenne un comizio a cui accorsero ben trentamila operai, nonostante la fine della Repubblica Sociale fosse ormai questione di giorni. Erano ancora in tantissimi a voler ascoltare le parole rivoluzionarie di questo «combattente sociale», le cui scelte furono spesso controcorrente ma mai opportunistiche. Quando morì accanto al Duce, gridò in faccia ai suoi assassini il  motto della sua vita: «Viva il socialismo!». E così proprio lui, quello del «me ne frego di Bombacci/ e del sol dell’avvenire» cantato dai giovani fascisti, scelse di dare tutto al fianco di Mussolini, nel nome del riscatto sociale di una nazione intera. Nel dopoguerra non pochi esponenti (tra quelli rimasti, viste le vendette  dei partigiani) di quella “sinistra fascista” che aveva avuto mirabili esempi nei sindacati e nei GUF, confluirono nel PCI, opportunisticamente alla ricerca di quadri competenti per il partito. Il MSI invece nacque tenuto ostaggio dalla “destra”, come ha riportato nei suoi scritti Giuseppe Parlato. Ed infatti, in assenza di colui che aveva saputo tenere in equilibrio le diverse tendenze durante il Ventennio, i “continuatori” del fascismo troppo spesso fecero scelte non in linea con il loro passato. Ma questa è un’altra storia.