(Di Leonardo
Palma – da “L’intellettuale dissidente”)
Capire l’Iran è
stimolante e frustrante al tempo stesso. Si tratta di un faticoso lavoro di
interpretazione che spesso rifugge dalla maggior parte dei modelli
storico-politici e sociologici dell’Occidente, ma anche di buona parte del
Medio Oriente. Gli iraniani infatti non hanno il nostro stesso modo di pensare
ma non lo condividono neanche con i loro “cugini” arabi. I loro quadri
cognitivi di riferimento plasmano al tempo stesso il loro senso di giustizia e
il loro senso della storia. Per un iraniano la filosofia della storia, della
sua storia, è molto più importante di buona parte dei precetti religiosi
islamici che guidano la loro giornata. E già qui si intravede una profonda
cesura rispetto all’Occidente dove, buona parte della società, non solo è divenuta
un popolo senza storia ma peggio un popolo che ne ha perso il senso. Si tratta
di un nodo essenziale per comprendere i paradigmi di riferimento dell’azione
iraniana. Il paese degli ayatollah deve essere infatti studiato come un guscio
ricoperto da più strati che faticano a disvelarsi all’estraneo ma che
mantengono un filo conduttore per il giovane o l’anziano di Teheran. Paul
Kiwaczeck, nel suo libro In search of Zarathustra, sostiene che, da diversi
punti di vista, l’Islam in Iran non è altro che un velo, un accumulo che si è
stratificato e sedimentato su qualcosa di molto più antico. Per migliaia di
anni prima della rivelazione maomettana, la religione dell’Iran è stato lo
zoroastrismo, una delle prime religioni monoteiste della storia antica che ha lasciato
tracce indelebili nelle pieghe della coscienza collettiva del paese.
Come scrive Kiwaczeck: “L’islam nel mondo iraniano è come
il semplice chador di una donna, indossato su abiti molto più raffinati, una
cappa che copre, nasconde o incorpora buona parte dello zoroastrismo iraniano
tradizionale, pre-islamico”. E questo conglomerato culturale antecedente alla
diffusione dell’islam non è stato semplicemente relegato nello stato di
jahiliyya (la barbarie, lo stato di minorità e di ignoranza prima del messaggio
del Profeta) come nella penisola arabica, ma si è mantenuto come l’intonaco
sotto lo strato superficiale di vernice. Un iraniano, se ci si mostra
interessati, è capace di raccontarvi di come la maggior parte delle tribù
nomadiche dell’età del ferro parlassero un dialetto proto-iranico; di come un
tempo tutte le principali città dell’Asia centrale parlassero l’indoiranico e
degli antenati Cimmeri, Sciti, Sarmazi e Alani. Vi spiegherà che nomadi
iraniani vennero arruolati nel II d.C. per difendere la Britannia romana grazie
alle loro capacità belliche, che raggiunsero la Spagna, la Francia e le coste
del Nord Africa e che oggi nel Caucaso vivono ancora gli osseti, una
popolazione di 600.000 individui che parla una lingua iraniana. E sempre in
riferimento all’indoiranico vi potrà citare l’antico regno di Samarcanda dove
veniva parlato il dialetto sogdiano, o gli attuali abitanti del Pamir e del
Turkmenistan cinese che ancora usano un antico dialetto iraniano conosciuto
come saka (khotanese). Ma queste reminiscenze storiche come possono aiutare a
comprendere l’Iran contemporaneo? Semplicemente recuperando l’idea già espressa
in base alla quale la storia è il filtro con cui l’Iran dialoga con il mondo e
con sé stesso, è la pietra angolare su cui poggia il loro sogno imperiale sul
Golfo Persico e le comunità sciite mediorientali.
L’Iran osserva al mondo non con gli occhi dell’islam, la
patina superficiale, ma con la sensibilità dello zoroastrismo: la dualità del
bene contro il male che si ripropone nel corso della ciclicità storica ora come
la colonizzazione di Alessandro Magno, un barbaro che distrusse il libro sacro
dell’Avesta, impose la civiltà ellenistica e sposò una ragazza iraniana
(Rossana) nella città di Balkh (che diede i natali a Zoroastro), ora come
l’ingerenza britannica nei confronti di Mohammed Mossadeq, ora come l’occupazione
americana di Iraq e Afghanistan. Il peso di queste usurpazioni ha spinto l’Iran
a nascondersi in clandestinità, a chiudersi dietro lo chador, le tende o
qualsiasi altro “muro” che ammanta di mistero e nasconde agli occhi occidentali
i fasci nervosi della società iraniana. La stessa società in cui uno dei
pilastri dell’islam sciita è proprio la taqiyya, la dissimulazione per
proteggere la fede. Dissimulazione è esattamente la parola chiave con cui
approcciarsi al paese degli ayatollah. Sia che si tratti di uno studente di
ingegneria di Teheran, di un imam o di un diplomatico inviato a discutere i
negoziati per il nucleare.
Secondo Robert Baer, la distinzione tra iraniano e
musulmano è più incisiva di quanto si possa pensare. Un cittadino della
Repubblica Islamica dell’Iran è iraniano e musulmano, e non smetterà mai di
farlo notare. Si tratta di un atteggiamento molto diverso rispetto a numerosi
musulmani anche occidentali che considerano la loro identità religiosa venire
prima di quella etnico-nazionale se non addirittura come la loro unica vera
identità. Questo porre l’accento anche sulla propria etnia iraniana, e quindi
su quell’insieme di tradizioni storiche antecedenti alla diffusione della
religione islamica, è presente anche nella classe politica del paese.
Esattamente come l’ex presidente Ahmadinejad non era il vero leader dell’Iran
(il potere è comunque accentrato nelle mani del clero), allo stesso modo la sua
esortazione a distruggere Israele contiene in sé un appello puramente retorico
e propagandistico all’ideale zoroastriano di bene e male. L’islam sciita è il
bene privo di contaminazioni, Israele come stato sionista è il male. E’ la
riproposizione in termini geopolitici semplicistici dello scontro profetizzato
da Zoroastro tra Luce e Ombra e la visione apocalittica dell’islam di
Ahmadinejad rifletteva proprio questa tradizione.
Uno dei migliori libri scritti sull’Iran è certamente The
Mantle of the Prophet di Roy Mottahedeh dove l’autore ipotizza che l’ascesa
della figura di Satana, a malapena citata nel Vecchio Testamento, divenne
importante nell’ebraismo unicamente dopo la cattività babilonese nel VI secolo
a.C. Quando caddero sotto l’influsso delle tradizioni persiane, anche la
religione ebraica trasmigrò in sé il dualismo di bene e male rendendo però il
primo ontologicamente e valorialmente superiore al secondo. Con una visione
tanto complessa del mondo, che integra le tradizioni zoroastriane, quelle
nomadiche delle tribù indoiraniche e ovviamente l’islam sciita con le sue
fissazioni sul martirio e la dissimulazione, si può capire facilmente perché è
difficile per noi occidentali comprendere l’Iran e perché sia così refrattario
alla modernità. Ma a dispetto di tanto amore per il loro passato, gli iraniani
hanno abbastanza freddezza da sapere che per perseguire il loro sogno di
rinnovato imperio sul Golfo Persico devono guardare avanti.