(Di Sebastiano
Caputo – da “L’intellettuale dissidente”)
Nel terzo
millennio riemerge dunque quel conflitto weberiano tra burocrati e partiti di
massa, tra funzionario e capo carismatico, tra tecnicismo e populismo.
All’agire politico finalizzato ad una causa etica si contrappone
l’atteggiamento “sine ira et studio (“senza animosità e simpatia”) del freddo
calcolatore. Non è un caso infatti che in Europa, ed in particolare in Italia,
da una parte si sono susseguiti ai vertici delle istituzioni “tecnici” (Mario
Monti), “saggi” (dieci esperti nominati da Napolitano a marzo del 2013) o
“burocrati travestiti da politici” (Enrico Letta e Matteo Renzi), dall’altra
sono state demonizzate tutte le forze populiste, carismatiche e profondamente
politiche. La politica si è così svuotata del suo carattere “magico” e “plebiscitario”
– da arte è divenuta una scienza – per trasformarsi in un sistema privatistico
nel quale le personalità (o la leadership) non sono “selezionate nel corso
della lotta politica” (Weber) ma premiate per la loro sottomissione o
organicità al sistema. Ecco che la politica è una corsa di cavalli dove i suoi
candidati, in determinati contesti storici e a seconda delle congiunture,
vengono sostenuti dall’alto da una serie di minoranze attive e organizzate (o
gruppi di pressione) che in questo o in quel soggetto politico ne identificano
le potenzialità per portare avanti i propri interessi.
Nei tempi recenti questa è stata la parabola del
Movimento 5 Stelle: agli esordi elettorali, era il 2011, il
contenitore ideato da Beppe Grillo fu gonfiato dai sondaggisti in un
momento dove l’anti-berlusconismo crollava parallelamente al declino del berlusconismo.
Per legittimarsi era necessario all’establishment italiano costruire un nuovo
nemico: l’anti-politica. Il successo del M5S alle politiche del 2013 fu una
sorpresa per tutti quanti, perfino, per quei gruppi di pressione che avevano
creato in un primo momento quella situazione e che sembrava essergli sfuggita
di mano. Tanto che l’anno successivo, alle elezioni europee di maggio, si fece
di tutto per arginare il populismo pentastellato, tanto da sfiduciare un paio
di mesi prima il presidente del Consiglio Enrico Letta e piazzare il
“populismo” al potere: Matteo Renzi. Fu un successo. Da lì il Movimento 5
Stelle è andato a calare nei consensi dimostrandosi un partito tutt’altro che
liquido (in realtà profondamente gerarchico e difficile da penetrare all’interno).
Così è subentrato un nuovo soggetto politico (molto più permeabile): Matteo
Salvini. Con lui, a differenza delle forze populiste in generale, non è stata
usata una strategia della demonizzazione. Anzi. Non c’è un giorno che il
segretario della Lega non sia in una trasmissione televisiva, nelle prime
pagine dei giornali (non sempre ne parlano bene, ma se ne parla sempre) o in
ascesa negli pseudo-sondaggi. È anche vero però che gli interessi di Matteo
Salvini coincidono con quelli dell’establishement mediatico-politico. Se da un lato il
leader del Carroccio ha bisogno di visibilità perché il momento lo richiede
(disfacimento di Forza Italia, buon senso delle battaglie del della Lega,
monopolio di Renzi, crisi economica e delle istituzioni), dall’altro,
televisioni, giornali, e “spin doctor” hanno bisogno del contradditorio di
fronte all’appiattimento del dibattito culturale (un corpo per camminare ha
sempre bisogno di due gambe!).
Sta proprio a Salvini capire fino a che punto i mass
media sono organici
al suo progetto o quanto lui sia organico al progetto delle elite
mondializzate. Va detto però che questo ha scatenato nel “Paese reale” un
movimento che va oltre la Lega: il “salvinismo”. Se prima abbiamo parlato di
“sostegno dall’alto” da parte di gruppi di pressione e minoranze attive, è
ancor più vero che il consenso esiste e proviene indubbiamente dal basso.
Il merito del giornalista Antonio Rapisarda è quello di aver raccontato nel suo
ultimo libro All’armi siam
leghisti (edizioni
Wingsbert House, pp. 240, 14 euro) la
cornice ideologica che direttamente o indirettamente ha contribuito alla
crescita di consenso della nuova Lega.
Salvini
sembrerebbe soltanto la punta di un iceberg. È questo l’aspetto più
interessante del manoscritto. Se Pietrangelo Buttafuoco spiega nella prefazione
che il miglior alleato di Salvini è “la realtà” (gli “smoderati”, i
“popolareschi”, gli “scamiciati”, gli “esclusi da ogni cerchia di potere”),
Rapisarda racconta invece “quelle realtà” che animano questo movimento
trasversale e, per certi aspetti, innovativo. “Salvini – dice Ugo Maria
Tassinari intervistato da Rapisarda – ha un network, sia di organizzazione
culturale sia di strutture informative – social network, web 2.0, comunicazione
multimediale e cross mediatica-, fatto da trentenni che non hanno mai fatto
politica o l’hanno fatta in maniera estremamente marginale e che però hanno
fatto o pressione o attività culturale o attività informativa”. Antonio
Rapisarda, come un investigatore, è andato a scoperchiare questo network e lo
ha raccontato nel corpo centrale del suo lavoro. Emergono una serie di think
tank diversi e slegati fra loro, alcuni più politicizzati altri meno, che
con lo strumento della metapolitica fanno alta politica: Il Talebano,
Barbadillo, Terra Insubre, Associazione Lombardia Russia, Il Primato Nazionale,
i No Euro, noi. E se popolo ed élite si scontrano nella nuova Italia,
popolo ed élite sembrano incontrarsi nel salvinismo narrato da Antonio
Rapisarda. Tra le righe del libro emerge questo monito: sta a
Matteo Salvini scegliere con quali minoranze attive (o gruppi di pressione)
stare. Se con gli alti o con i bassi.