(Di Adriano Scianca – da “Il primato
nazionale”)
Sono tornati
di moda gli squadristi. “Squadristi”, per il ministro delle Politiche
Agricole Maurizio Martina, erano i centri sociali che hanno devastato Milano
per protestare contro l’Expo.
Della stessa idea è Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: “L’azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s’è trattato: il modo paramilitare in cui s’è sviluppata l’azione, l’utilizzo delle tute”.
Della stessa idea è Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: “L’azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s’è trattato: il modo paramilitare in cui s’è sviluppata l’azione, l’utilizzo delle tute”.
Ma non sono
solo i “No Expo” a rappresentare un ritorno del primo fascismo. “Come li vuole
chiamare, quei cinquanta di Bologna. Squadristi. Insegno linguistica da tempo e
non trovo altro termine. Sono stata aggredita da cinquanta squadristi”, ha
dichiarato il ministro dell’Istruzione Stefania
Giannini dopo la
contestazione subita alla festa dell’Unità di Bologna.
Insomma, gli
eredi di Balbo, Farinacci e Pavolini stanno tornando? Tanto per cominciare
dovremmo fare un po’ di chiarezza: la vulgata storiografica “progressista” fa
dello squadrismo la “guardia bianca del capitale”, che le proteste violente e
radicali le reprimeva per conto del potere. E non è forse stato dato, proprio
dalla stessa Repubblica, del “fascista” a quel poliziotto che sosteneva di
voler rientrare alla Diaz insieme ai suoi colleghi? Quindi delle due l’una:squadrismo è la sovversione o
la repressione?
In
attesa che ci venga chiarito l’arcano, tutti sono comunque d’accordo nel
ritenere che “squadrista” sia ogni manifestazione di violenza immotivata. Ora,violenti gli squadristi
indubbiamente lo furono. A leggerla bene, tuttavia, la storia
ci racconta anche che forse le azioni delle squadre tanto immotivate non lo
fossero.
Prima di
giudicare la violenza squadrista, infatti, occorre calarsi realmente nel
contesto dell’epoca e comprendere cosa fu il“biennio rosso”, con tutto il suo
campionario di soprusi e prepotenze.
Gli episodi di
violenza, in quegli anni, si moltiplicavano: soldati e reduci erano linciati, i
lavoratori venivano tiranneggiati, i preti boicottati dalle leghe non potevano
neanche seppellire i morti, all’interno delle stesse organizzazioni sediziose
vigeva il culto della personalità dei vari capilega.
Il tutto, si
badi, con i socialisti forti, nel 1919, di quasi tremila comuni amministrati,
più di 150 deputati, leghe e cooperative, giornali a grandissima tiratura che
inneggiavano perennemente alla violenza di classe.
Il modello rivendicato non era la socialdemocrazia scandinava ma il terrore
rosso, l’Unione
sovietica. Che la Ceka entrasse in funzione anche a Roma, dopo
Mosca, non era affatto impossibile.
Persino
uno studioso antifascista come Mimmo
Franzinelli, nel suo ritratto della gioventù squadrista, non
può esimersi dal mettere subito in chiaro che almeno fino all’estate del 1920
«considerati seguito popolare e rapporti di forza,l’uso della violenza è più
frequente da parte dei socialisti, numericamente ben più
agguerriti».
E ancora: «La
diffusione a macchia d’olio dello squadrismo era stata preceduta da un
biennio di violenza “rossa” dai caratteri di massa, collegata
direttamente a scioperi operai e a vertenze bracciantili».
Anche lo
storico Emilio Gentile parla del biennio rosso mettendo in
evidenza «un’ondata
di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in
gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente
rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del
proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva
adottato nel 1919».
A ciò si
aggiunga l’aspetto qualitativo della violenza rossa, che
andava ad irridere, umiliare, delegittimare e colpire anche fisicamente simboli
e uomini che erano diretta espressione della Grande Guerra. Ovvero, del mito
mobilitante per antonomasia per tutta una generazione.
È
ancora Franzinelli a pronunciare parole assai chiare: «Il fenomeno squadrista è
più complesso e sfaccettato di quanto non lo si sia rappresentato. E porta con
sé alcuni miti da sfatare. Non è vero che a sinistra ci
fossero solo vittime inermi, come pure non risponde a realtà
che la violenza fosse patrimonio di una parte sola: i “sovversivi” si difesero
e agirono con puntuali offensive, per quanto armi, tecniche e condizioni lo
consentissero. È infondato sostenere che i fascisti aggredissero a freddo e
muovessero all’attacco in dieci contro uno: diversi di loro morirono per i
colpi di franchi tiratori. Il movimento fascista ebbe la forza di trasformare i
suoi caduti in martiri, traendo da quelle morti uno slancio politico
organizzativo notevolissimo».
Né la
questione può essere ridotta a mera manovalanza per il
capitale impaurito
dalle manovre dei rossi. Socialmente la composizione delle squadre è
interclassista, ma con una certa dominanza di quel ceto
medio che più di
altri fu permeato dalle suggestioni avanguardiste e nazionaliste che impregnano
la cultura di quell’epoca.
Le statistiche
chiariscono che gli operai erano circa il 30%
del totale, mentre il grosso era costituito da impiegati,
laureati e piccoli agricoltori. Le squadre, ad ogni modo, secondo lo storico Sven
Reichardt, «non ebbero chiara connotazione di classe».
A tal
proposito si è molto speculato sul famigerato “sostegno degli agrari” che avrebbe reso evidente e
trasparente la natura dello squadrismo come reazione di classe anti-operaia,
anti-contadina, creata e manovrata dai possidenti.
Ed è curioso
come ci si sia dimenticati in fretta della parole di un’autorità assoluta
sull’argomento come Renzo De Felice,
che pure su questo aspetto seppe dare spiegazioni che non esiteremo a definire definitive: «È
da escludere che le grandi forze economiche abbiano teso a portare il fascismo
al potere».
Qualcuno,
semmai, pensò di usarlo come guardia bianca. Un calcolo, quest’ultimo, che lo
storico reatino non esita a definire totalmente irrealistico e miope. Venuta
per usare, la vecchia classe dirigente economica e politica fu usata in tutto e
per tutto.
Finanziamenti
ci furono, ma riguardarono le zone agrarie
(molto meno o per nulla le città e le fabbriche) e si concretizzarono solo dopo
la metà del 1920. Furono, in ogni caso, contributi per lo più individuali e non
sistematici. E sempre votati a cavalcare un movimento che fu pragmatico e
seppe, invece, sfruttare a fini propri e per la propria rivoluzione ogni chance che gli
veniva offerta. No, gli squadristi non furono gli sgherri del gran capitale.
Né furono solo
manigoldi assetati di sangue. Lo ricordava l’ex ardito milanese Piero
Bolzon,lanciando i suoi strali contro i critici dello
squadrismo che, diceva, ignoravano «come poesia ed impeto, cultura e coraggio
fossero a dovizia presso gl’iniziati; tanta aurora insurrezionale era pervasa
tutta di intellettualità combattiva. […] L’aristocraticità consisteva in
affermazioni di imperio e di audacia, non disgiunte da un’alta moralità di
dottrine rinnovatrici. Non si cercava di stornare dalle responsabilità, colla
pretesa di rinnovare lo Statuto. Tenevamo le piazze abbandonate da tutti i
poltroni ed esteti, non solo colla bomba, ma con pensiero consapevole. A
imporci la dura disciplina quotidiana ci assisteva un fiero misticismo di
patria. La violenza era il mezzo, non il fine. Apostoli o guerrieri, secondo la
contingenza: demagoghi o teppisti mai».
Altro che
teppistelli in Rolex e bombolette spray…