martedì 5 maggio 2015

Ma che c’entra lo squadrismo coi centri sociali? Una messa a punto storica

(Di Adriano Scianca – da “Il primato nazionale”)

Sono tornati di moda gli squadristi. “Squadristi”, per il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, erano i centri sociali che hanno devastato Milano per protestare contro l’Expo.
Della stessa idea è Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: “L’azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s’è trattato: il modo paramilitare in cui s’è sviluppata l’azione, l’utilizzo delle tute”.
Ma non sono solo i “No Expo” a rappresentare un ritorno del primo fascismo. “Come li vuole chiamare, quei cinquanta di Bologna. Squadristi. Insegno linguistica da tempo e non trovo altro termine. Sono stata aggredita da cinquanta squadristi”, ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini dopo la contestazione subita alla festa dell’Unità di Bologna.

Insomma, gli eredi di Balbo, Farinacci e Pavolini stanno tornando? Tanto per cominciare dovremmo fare un po’ di chiarezza: la vulgata storiografica “progressista” fa dello squadrismo la “guardia bianca del capitale”, che le proteste violente e radicali le reprimeva per conto del potere. E non è forse stato dato, proprio dalla stessa Repubblica, del “fascista” a quel poliziotto che sosteneva di voler rientrare alla Diaz insieme ai suoi colleghi? Quindi delle due l’una:squadrismo è la sovversione o la repressione?
In attesa che ci venga chiarito l’arcano, tutti sono comunque d’accordo nel ritenere che “squadrista” sia ogni manifestazione di violenza immotivata. Ora,violenti gli squadristi indubbiamente lo furono. A leggerla bene, tuttavia, la storia ci racconta anche che forse le azioni delle squadre tanto immotivate non lo fossero.
Prima di giudicare la violenza squadrista, infatti, occorre calarsi realmente nel contesto dell’epoca e comprendere cosa fu il“biennio rosso”, con tutto il suo campionario di soprusi e prepotenze.
Gli episodi di violenza, in quegli anni, si moltiplicavano: soldati e reduci erano linciati, i lavoratori venivano tiranneggiati, i preti boicottati dalle leghe non potevano neanche seppellire i morti, all’interno delle stesse organizzazioni sediziose vigeva il culto della personalità dei vari capilega.
Il tutto, si badi, con i socialisti forti, nel 1919, di quasi tremila comuni amministrati, più di 150 deputati, leghe e cooperative, giornali a grandissima tiratura che inneggiavano perennemente alla violenza di classe. Il modello rivendicato non era la socialdemocrazia scandinava ma il terrore rosso, l’Unione sovietica. Che la Ceka entrasse in funzione anche a Roma, dopo Mosca, non era affatto impossibile.
Persino uno studioso antifascista come Mimmo Franzinelli, nel suo ritratto della gioventù squadrista, non può esimersi dal mettere subito in chiaro che almeno fino all’estate del 1920 «considerati seguito popolare e rapporti di forza,l’uso della violenza è più frequente da parte dei socialisti, numericamente ben più agguerriti».
E ancora: «La diffusione a macchia d’olio dello squadrismo era stata preceduta da un biennio di violenza “rossa” dai caratteri di massa, collegata direttamente a scioperi operai e a vertenze bracciantili».
Anche lo storico Emilio Gentile parla del biennio rosso mettendo in evidenza «un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva adottato nel 1919».
A ciò si aggiunga l’aspetto qualitativo della violenza rossa, che andava ad irridere, umiliare, delegittimare e colpire anche fisicamente simboli e uomini che erano diretta espressione della Grande Guerra. Ovvero, del mito mobilitante per antonomasia per tutta una generazione.
È ancora Franzinelli a pronunciare parole assai chiare: «Il fenomeno squadrista è più complesso e sfaccettato di quanto non lo si sia rappresentato. E porta con sé alcuni miti da sfatare. Non è vero che a sinistra ci fossero solo vittime inermi, come pure non risponde a realtà che la violenza fosse patrimonio di una parte sola: i “sovversivi” si difesero e agirono con puntuali offensive, per quanto armi, tecniche e condizioni lo consentissero. È infondato sostenere che i fascisti aggredissero a freddo e muovessero all’attacco in dieci contro uno: diversi di loro morirono per i colpi di franchi tiratori. Il movimento fascista ebbe la forza di trasformare i suoi caduti in martiri, traendo da quelle morti uno slancio politico organizzativo notevolissimo».
Né la questione può essere ridotta a mera manovalanza per il capitale impaurito dalle manovre dei rossi. Socialmente la composizione delle squadre è interclassista, ma con una certa dominanza di quel ceto medio che più di altri fu permeato dalle suggestioni avanguardiste e nazionaliste che impregnano la cultura di quell’epoca.
Le statistiche chiariscono che gli operai erano circa il 30% del totale, mentre il grosso era costituito da impiegati, laureati e piccoli agricoltori. Le squadre, ad ogni modo, secondo lo storico Sven Reichardt, «non ebbero chiara connotazione di classe».
A tal proposito si è molto speculato sul famigerato “sostegno degli agrari” che avrebbe reso evidente e trasparente la natura dello squadrismo come reazione di classe anti-operaia, anti-contadina, creata e manovrata dai possidenti.
Ed è curioso come ci si sia dimenticati in fretta della parole di un’autorità assoluta sull’argomento come Renzo De Felice, che pure su questo aspetto seppe dare spiegazioni che non esiteremo a definire definitive: «È da escludere che le grandi forze economiche abbiano teso a portare il fascismo al potere».
Qualcuno, semmai, pensò di usarlo come guardia bianca. Un calcolo, quest’ultimo, che lo storico reatino non esita a definire totalmente irrealistico e miope. Venuta per usare, la vecchia classe dirigente economica e politica fu usata in tutto e per tutto.
Finanziamenti ci furono, ma riguardarono le zone agrarie (molto meno o per nulla le città e le fabbriche) e si concretizzarono solo dopo la metà del 1920. Furono, in ogni caso, contributi per lo più individuali e non sistematici. E sempre votati a cavalcare un movimento che fu pragmatico e seppe, invece, sfruttare a fini propri e per la propria rivoluzione ogni chance che gli veniva offerta. No, gli squadristi non furono gli sgherri del gran capitale.
Né furono solo manigoldi assetati di sangue. Lo ricordava l’ex ardito milanese Piero Bolzon,lanciando i suoi strali contro i critici dello squadrismo che, diceva, ignoravano «come poesia ed impeto, cultura e coraggio fossero a dovizia presso gl’iniziati; tanta aurora insurrezionale era pervasa tutta di intellettualità combattiva. […] L’aristocraticità consisteva in affermazioni di imperio e di audacia, non disgiunte da un’alta moralità di dottrine rinnovatrici. Non si cercava di stornare dalle responsabilità, colla pretesa di rinnovare lo Statuto. Tenevamo le piazze abbandonate da tutti i poltroni ed esteti, non solo colla bomba, ma con pensiero consapevole. A imporci la dura disciplina quotidiana ci assisteva un fiero misticismo di patria. La violenza era il mezzo, non il fine. Apostoli o guerrieri, secondo la contingenza: demagoghi o teppisti mai».
Altro che teppistelli in Rolex e bombolette spray…