di Alessandro Giulia, da Il foglio
Estate 2008, Tessaglia, alle pendici del Monte Olimpo, campo base nel piccolo e bizantineggiante paesino di Litochoro, all’hotel Zeus Xenios, Giove che accoglie i viandanti stranieri. Solo due anni prima ero venuto qui per celebrare il Solstizio d’estate con i pagani dell’Ellade riuniti sotto le insegne dell’Ysee, ma c’era gente da tutta l’Europa: il rito comune, gli spettacoli, poi bivacchi, tende, focheracci e banchetti omerici. Stavolta siamo in due, da Roma, casti e pronti, arriveremo fino in vetta dopo una notte nel rifugio in quota. Riporteremo a valle con noi la luce degli Dei superi, un intensissimo odore di resine, il sorriso complice di quella coppia di bulgari conosciuta in cresta, devota a Dioniso e illuminata come noi dal raggio di Sole che dichiarava la conclusione fausta della honesta missio montanara, e nel caso del mio fratello d’ascesa anche un’abrasione sul sedere per via d’una scorciatoia imboccata “a valanga” su mia strafottente sollecitazione.
Tornati a Litochoro, riposo di guerrieri, cena con carni arrostite e vino resinato nella bettola paesana (esiste un canone preciso: scegliersi la trattoria dove bivaccano gli indigeni sfaccendati, meglio ancora se anziani, e non ci saranno mai rimpianti). Ma non in due: abbiamo invitato a tavola il più ospitale fra i cani randagi che sciamano per la via principale, un nerissimo e festante incrocio di taglia media subito soprannominato Argo. Doppia razione di souvlaki anche per lui, sotto gli occhi condiscendenti del più vecchio fra gli avventori nativi che di lì a poco ci offrirà due giri di tsipouro (acquavite) per ringraziarci dell’onore concesso al genio del luogo. Si berrà fino a tardi, sapendo che l’indomani ci aspetta un congedo veloce e un’altra missio. E in effetti la mattina dopo ci si alza a fatica ma senza mal di testa, anzi con un nitore speciale nell’aria e nel cuore. Si entra nell’unico negozio di fiori del paese, c’è una donna dal sorriso timidissimo che non parla inglese (come se noi invece lo parlassimo…). Ci si intende grazie alle reminiscenze del greco antico: Dàfni! Dàfni? Dàfni! Stephanè! Stephanè? Stephanè! E poi: voglio questo nastro qui… aftò… rosso… kòkkino… E poi quest’altro… dorato… aftò… chrysòs… E’ così: in un modo o nell’altro ci facciamo confezionare una corona di lauro, la pianta trionfale di Apollo che ci è così cara e famigliare perché dà il nome alla Silva Laurentina degli Eneidi (“in origine si estendeva lungo la costa fino a Terracina e prendeva nome dalle sconfinate distese di lauro che maggiormente la caratterizzavano, così come dal lauro prendeva nome il popolo che l’abitava a sud della foce del Tevere, i Laurentes…”, scriveva Lorenzo Quilici nel suo “Roma primitiva e le origini della civiltà laziale”, 1979). La fioraia è prima sconcertata, poi si commuove coi lucciconi quando capisce il movente della nostra commissione: stiamo andando alle Termopili, è un dono per Leonida e i suoi valorosi trecento e più eroi.
Giunti alle Porte di fuoco, tutto è silenzio sotto la statua bronzea del sovrano lacedemone, un rapace acconsente dall’alto dei suoi volteggi leggeri. La corona viene deposta nel punto stabilito, il vento da est porta echi salmastri, risuonano calme le parole di Simonide:
Dei morti alle Termopili
gloriosa la sorte, bella la fine,
la tomba un’ara, invece di pianti, il ricordo, il compianto è lode.
Un tal sudario né ruggine
né il tempo mangiatutto oscurerà.
Questo sacello d’eroi valorosi come abitatrice la gloria
d’Ellade si prese. Ne fa fede anche Leonida,
re di Sparta, che lasciò di virtù grande
ornamento e imperitura gloria.
gloriosa la sorte, bella la fine,
la tomba un’ara, invece di pianti, il ricordo, il compianto è lode.
Un tal sudario né ruggine
né il tempo mangiatutto oscurerà.
Questo sacello d’eroi valorosi come abitatrice la gloria
d’Ellade si prese. Ne fa fede anche Leonida,
re di Sparta, che lasciò di virtù grande
ornamento e imperitura gloria.
This is Sparta? No. Questa non è la frase a effetto per fumettari hollywoodiani. Questa è la Grecia pelasgica, regale e guerriera che fermò i barbari e salvò l’Europa dal morbo asiatico. Allora i nemici erano Persiani, e oggi avercene di Immortali come quelli di Dario e di Serse. Ma allora i figli di Ercole erano forse imbattibili, e così integri da rifiutare fiumi d’oro in cambio dell’asservimento. Non tutti i Greci, invero, tennero la posizione, ma cosa importa.
Non è vero che quella Grecia non esiste più, l’Ellade Santa sulla quale poetò alcionico D’Annunzio c’è ancora, io la conosco, l’ho incontrata innumerevoli volte, respira e respira e respira sempre eroica. Se non ve ne accorgete è perché la sua ambrosia e il suo nettare, il suo icore e il suo sangue nobile si sono cristallizzati in tante goccioline ambrate sperdute nei villaggi negati ai turisti, lontani dal verminaio ateniese. L’ambrosia dell’Ellade Santa è sulle falesie nere delle isole vulcaniche o accanto ai ciottoli delle coste calcidiche, fra i pini di Samotracia, nei fiori azzurrini che sono le colonne dei templi femminili di Mantinea, nel volto rugoso del pastore che mi ha ceduto il suo bastone di rovere lungo la via per il Monte Liceo, nel ciliegio scolpito con fredda voluttà dal falegname arcade che ritrae Afrodite e Asclepio, nel sorriso d’un fanciullesco Mercurio che sa, a distanza di chilometri, di quella borsa dimenticata nella taverna di una strega e me lo dice così, ed è anche negli occhi di quella strega, l’ambrosia, nell’iride d’una donna orribilmente fascinosa; ed è nel vino denso di Naxos, nella cava di marmo pario in cui abbiamo atteso l’ora di Pan fra le ninfe di cera d’api, nella desolazione della Pieria e nello sciabordio pigro della schiuma che bagna la più antica spiaggia di Epidauro, dove il profumo del mirto accese i sensi di un ragazzino che avrebbe combattuto per Vesta e Roma, e che anni dopo sarebbe riapparso lì, sapendo che non c’è distanza maggiore da un punto se non quella del ritorno. Questa è la Grecia, il ritorno.