(Di Sebastiano Caputo - da "L'intellettuale dissidente")
Il confine che
separa la retorica africanista dall’ipocrisia o dal suprematismo è sottile.
Anche se, in realtà ipocrisia e razzismo, sono due forme differenti di
sfruttamento eredi della tradizione liberal-democratica e progressista
anglosassone. Infatti i promotori dell’ideologia razzista, come gli odierni
professionisti dell’anti-razzismo, hanno le stesse identiche finalità:
colonizzare, diversamente, l’Africa. Quelli che predicano un
terzomondismo da salotto non fanno altro che legittimare la globalizzazione
economica (capitalismo per tutti in un mondo senza frontiere) e l’industria
sorridente dell’asservimento delle varie organizzazione benefiche. E a furia di
mantenerli in uno stato d’inferiorità (quote etniche, politiche
immigrazioniste, assistenzialismo, ecc.) continuano a sostenere ideologicamente
tutte le “guerre umanitarie” conformemente all’ideologia razzista della Rule
Britannia e della Pax
Americana.
Ci voleva Walter Veltroni per ricordarci la miseria
africana quando promise di trasferirsi per aiutare i poveri bisognosi. Poi non
ci andò ovviamente, e preferì lucrare sulla condizione di un intero popolo
pubblicando nel 2011 un libro-diario intitolato “Forse Dio è malato”. Il
politicamente corretto crea sottosviluppo quanto la politica economica di una
multinazionale cinese o occidentale che fa profitto sul continente nero. Lo
aveva capito Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso negli anni Ottanta e teorico
della rivoluzione burkinabé, che portò in pochi anni il suo Paese dal 143esimo
al 78esimo posto per ricchezza nel mondo. “Il Burkina Faso ai burkinabé,
l’Africa agli africani” esclamava a gran voce nei congressi continentali
invitando tutti gli altri capi di Stato che si trovavano nella stessa
situazione di indigenza a non restituire il debito – considerato “uno strumento
di controllo che i Paesi ex colonizzatori usavano per tenere in pugno il terzo
mondo” -, a svincolarsi da esso, e a riprendere in mano il destino africano con
le sole forze dell’Africa.
La questione africana e del suo sviluppo è strettamente
legata all’Europa. In primis in relazione al fenomeno dell’immigrazione
incontrollata e clandestina che è diventato un problema reale, soprattutto se
si prendono in considerazione le stime demografiche dell’area subsahariana.
Alcuni di demografi ritengono che soltanto la Nigeria nel 2050 avrà una
popolazione di 450 milioni di persone. Sovrappopolazione è sinonimo di
carestia, dunque di fame, malattie, povertà. La retorica del “Aiutiamoli a casa
loro!” o “Integriamoli!” sono due forme sloganistiche che non aiutano la
condizione africana e il suo popolo bensì lo mantengono in uno stato di
inferiorità perenne. Per rispondere al neo-colonialismo di suprematisti e
professionisti dell’anti-razzismo è di conseguenza necessario auspicare una
neo-decolonizzazione sul modello sankariano: solo gli africani possono
emancipare il continente nero e tracciare una via di sviluppo reale. Ci
provarono i panafricanisti degli anni Settanta e successivamente i teorici
della negritudine come Malcolm X e Leopold Sedar Senghor. Ora tocca ai popoli,
sacrificati dalla maggior parte delle elite africane, ormai colluse da decenni
con quelle occidentali. Dal canto loro, gli europei hanno il solo dovere di
lavorare con le elite di origine immigrata integrate nel nostro continente
(immigrati di seconda o terza generazione) per formare nelle nostre università
la classe dirigente africana e nordafricana del domani, invertire i flussi
migratori, interpretare il concetto di autodeterminazione e riorganizzare le
comunità locali. Perché con lo sfruttamento ci perdono tutti, europei e
africani.