venerdì 20 febbraio 2015

Cattivi Maestri

Non c’è bisogno di andare su scuolazoo.com per vedere il definitivo collasso dell’autorità scolastica e del nostro modello educativo, la cui dimensione “politicamente corretta” si è ritorta contro quelle istituzioni che da anni professano la tolleranza, il diritto, la libera disposizione di sé. A forza di accondiscendenza sono ormai gli alunni e i genitori a dettare legge: portano in tribunale i docenti che mettono voti bassi o note sul diario. Questo perché la scuola, come la società tutta, non ha – apparentemente – più niente da vietare, ha perso il suo ruolo di “agente socializzatore” e perciò non è neanche un organo che vale la pena combattere. L’istinto rivoluzionario, la matrice sovversiva che porta dentro di sé ogni individuo, che è poi la proiezione esternata del complesso edipico nei confronti del padre – che bisogna metapsichicamente uccidere per attingere la propria libertà – non trova più un canale di sfogo nelle autorità tradizionali. Il padre non merita più di essere “ucciso”, perché non ha più niente da insegnare, tanto meno il professore. Chi combattere, chi liquidare, chi sovvertire? Manca, schmittianamente, un nemico ben delineato. Senza questo nemico, i concetti di rivoluzione, rivolta, ribellione,  che orbitano intorno ad un profondo senso di antagonismo rispetto al presente  – e concettualizzati da un’ampia tradizione europea (da Lenin a Camus a Junger)  - perdono il loro orizzonte di senso.

Ma non dobbiamo pensare che i giovani non siano più una forza sovversiva, perché per quanto lo si voglia reprimere o invece permettere a tal punto da farlo diventare sterile, lo spirito di ribellione esiste, è connaturato alla giovinezza stessa. “Essere giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione biologica” diceva Salvador Allende, ebbene, anche guardandoci intorno per strada, vediamo che persiste una perversa voglia di “andare contro”, di dire “no”, di distinguersi dall’impasto collettivo. Il problema è che, su questo “no”, il libero mercato ci ha fatto il suo più grande business, la sua più  grande risorsa di profitto. Ha canalizzato questa splendida forza nel campo dell’abbigliamento, del gadget, del look, dello stile, in un immenso commercio in cui ognuno può scegliere la propria personalità, già confezionata, già prodotta, con tanto di gestualità annessa. Dall’hypster all’ultras, passando dall’Emo per arrivare fino al giovane imprenditore impegnato ad inaugurare una start-up dopo l’altra, ci si ribella – paradossalmente – in massa nell’ambito del consumo permissivo, laddove tutto è permesso e niente è considerato ribelle. C’è chi insegue il vecchio, il retro, chi punta al nuovo, chi si rifà a Woodstock, a Green street hooligans, al taglialegna canadese, chi alla beat generation, chi si veste griffato: la dimensione del consumo ha fatto evaporare l’autorità e ha foraggiato, attraverso modelli televisivi d’integrazione, una ribellione spettacolare, che però non rimette in causa, in ambito produttivo, l’oppressione, il precariato, la flessibilità, i ritmi del lavoro salariato, ma anzi si piega – fa di tutto! – pur di permettersi la propria identità da supermercato. Si è schiavi nella grande fabbrica per potersi “ribellare” in luogo di consumo, laddove non solo è consentito, ma è anche auspicato.
E allora su chi possiamo ancora sperare, se non su tutti quei professori stanchi della nebulosa di indifferenza che baccheggia tra i banchi scolastici? Su quei professori inascoltati, bistrattati, sottopagati, delusi, ridotti a funzionari di un organo senza potere – perché il potere si è evaporato al di là delle istituzione, per proiettarsi nel campo sregolato della forma merce – che non hanno più niente da offrire e perciò neanche niente da vietare? Ci appelliamo non tanto alla classe dei pedagoghi, quanto alla coscienza di singoli individui terribilmente annoiati dall’inutilità delle lezioni, tanto per loro quanto per gli studenti, indifferenti ad una cultura umanistica che pacifica tutto e che li abitua a subentrare nei ranghi della megamacchina della tecnica. Che brucino i manuali di Storia che presentano l’evoluzione come un inveramento della libertà! Che i professori, per ritornare ad avere una certa autorevolezza diventino “cattivi maestri”, insegnino il conflitto, delineino i contrasti, le tensioni, smascherino le contraddizioni. Allora si che a quel punto non ci saranno più sbadigli né spalle alzate. Chi, tra gli studenti, una volta appreso che il giovane Stalin appiccava il fuoco alle raffinerie petrolifere dei Rotschild, si potrà sentire davvero un ribelle? Mentre Cavour era un burocrate, e annoia, perché non raccontiamo di Pisacane, della sua morte a Sapri? A confronto di quello sbarco, le domeniche allo stadio sembrano “un pranzo di gala”. E, ancora, di fronte alla vita di Junger, sarebbe ridicolo pensare di passare al bosco andando a fare una braciolata in campagna immortalata con qualche foto goliardica. Insegnate loro l’arroganza di un Céline, ridicolizzate le loro pretese di essere “contro” , recuperate dai cimiteri della Storia la tensione energica di uomini vissuti e morti per un’altra società. Allora solo lì si desterà l’attenzione, solo lì la rabbia improduttiva delle giovani generazione potrà essere sublimata altrove, fuori dall’orbita del consumo, verso vette più alte. Perché in fondo tutti amano i “cattivi maestri”, il problema è che questi non riemergono più dai cimiteri della Storia, ma addestrano dai serial americani, dalle file della serie A, dal rap su Mtv, da tutte quelle sedi che continuiamo a chiamare subculture, ma che sono, in definitiva, la cultura dominante della forma merce.

(Di Lorenzo Vitelli – Da “L’intellettuale dissidente”)