Non c’è bisogno
di andare su scuolazoo.com per vedere il definitivo collasso dell’autorità
scolastica e del nostro modello educativo, la cui dimensione “politicamente
corretta” si è ritorta contro quelle istituzioni che da anni professano la
tolleranza, il diritto, la libera disposizione di sé. A forza di
accondiscendenza sono ormai gli alunni e i genitori a dettare legge: portano in tribunale i docenti che mettono voti bassi o note sul diario.
Questo perché la scuola, come la società tutta, non ha – apparentemente –
più niente da vietare, ha perso il suo ruolo di “agente socializzatore” e
perciò non è neanche un organo che vale la pena combattere. L’istinto
rivoluzionario, la matrice sovversiva che porta dentro di sé ogni individuo,
che è poi la proiezione esternata del complesso edipico nei confronti del padre
– che bisogna metapsichicamente uccidere per attingere la propria libertà – non
trova più un canale di sfogo nelle autorità tradizionali. Il padre non merita
più di essere “ucciso”, perché non ha più niente da insegnare, tanto meno il
professore. Chi combattere, chi liquidare, chi sovvertire? Manca,
schmittianamente, un nemico ben delineato. Senza questo nemico, i concetti di
rivoluzione, rivolta, ribellione, che orbitano intorno ad un profondo
senso di antagonismo rispetto al presente – e concettualizzati da
un’ampia tradizione europea (da Lenin a Camus a Junger) - perdono il loro
orizzonte di senso.
Ma non dobbiamo
pensare che i giovani non siano più una forza sovversiva, perché per quanto lo
si voglia reprimere o invece permettere a tal punto da farlo diventare sterile,
lo spirito di ribellione esiste, è connaturato alla giovinezza stessa. “Essere
giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione biologica” diceva
Salvador Allende, ebbene, anche guardandoci intorno per strada, vediamo che
persiste una perversa voglia di “andare contro”, di dire “no”, di
distinguersi dall’impasto collettivo. Il problema è che, su questo “no”, il
libero mercato ci ha fatto il suo più grande business, la sua più grande
risorsa di profitto. Ha canalizzato questa splendida forza nel campo
dell’abbigliamento, del gadget, del look, dello stile, in un immenso commercio in
cui ognuno può scegliere la propria personalità, già confezionata, già
prodotta, con tanto di gestualità annessa. Dall’hypster all’ultras, passando
dall’Emo per arrivare fino al giovane imprenditore impegnato ad inaugurare
una start-up dopo
l’altra, ci si ribella – paradossalmente – in massa nell’ambito del consumo
permissivo, laddove tutto è permesso e niente è considerato ribelle. C’è chi
insegue il vecchio, il retro, chi punta al nuovo, chi si rifà a Woodstock, a
Green street hooligans, al taglialegna canadese, chi alla beat generation, chi
si veste griffato: la dimensione del consumo ha fatto evaporare l’autorità e ha
foraggiato, attraverso modelli televisivi d’integrazione, una ribellione
spettacolare, che però non rimette in causa, in ambito produttivo,
l’oppressione, il precariato, la flessibilità, i ritmi del lavoro salariato, ma
anzi si piega – fa di tutto! – pur di permettersi la propria identità da
supermercato. Si è schiavi nella grande fabbrica per potersi “ribellare” in
luogo di consumo, laddove non solo è consentito, ma è anche auspicato.
E allora su chi
possiamo ancora sperare, se non su tutti quei professori stanchi della nebulosa
di indifferenza che baccheggia tra i banchi scolastici? Su quei professori
inascoltati, bistrattati, sottopagati, delusi, ridotti a funzionari di un
organo senza potere – perché il potere si è evaporato al di là delle
istituzione, per proiettarsi nel campo sregolato della forma merce – che non
hanno più niente da offrire e perciò neanche niente da vietare? Ci appelliamo
non tanto alla classe dei pedagoghi, quanto alla coscienza di singoli
individui terribilmente annoiati dall’inutilità delle lezioni, tanto per loro
quanto per gli studenti, indifferenti ad una cultura umanistica che pacifica
tutto e che li abitua a subentrare nei ranghi della megamacchina della tecnica.
Che brucino i manuali di Storia che presentano l’evoluzione come un inveramento
della libertà! Che i professori, per ritornare ad avere una certa autorevolezza
diventino “cattivi maestri”, insegnino il conflitto, delineino i contrasti, le
tensioni, smascherino le contraddizioni. Allora si che a quel punto non ci
saranno più sbadigli né spalle alzate. Chi, tra gli studenti, una volta appreso
che il giovane Stalin appiccava il fuoco alle raffinerie petrolifere dei
Rotschild, si potrà sentire davvero un ribelle? Mentre Cavour era un burocrate,
e annoia, perché non raccontiamo di Pisacane, della sua morte a Sapri? A
confronto di quello sbarco, le domeniche allo stadio sembrano “un
pranzo di gala”. E, ancora, di fronte alla vita di Junger, sarebbe ridicolo
pensare di passare al bosco andando a fare una braciolata in campagna
immortalata con qualche foto goliardica. Insegnate loro l’arroganza di un
Céline, ridicolizzate le loro pretese di essere “contro” , recuperate dai
cimiteri della Storia la tensione energica di uomini vissuti e morti per
un’altra società. Allora solo lì si desterà l’attenzione, solo lì la rabbia
improduttiva delle giovani generazione potrà essere sublimata altrove, fuori
dall’orbita del consumo, verso vette più alte. Perché in fondo tutti amano i
“cattivi maestri”, il problema è che questi non riemergono più dai cimiteri
della Storia, ma addestrano dai serial americani, dalle file della serie A,
dal rap su Mtv, da tutte quelle sedi che continuiamo a chiamare
subculture, ma che sono, in definitiva, la cultura dominante della forma merce.
(Di Lorenzo
Vitelli – Da “L’intellettuale dissidente”)