mercoledì 25 febbraio 2015

Perché è giusto dire: “Prima gli italiani”


di Adriano Scianca, da Il primato nazionale
Esiste una questione preliminare, originaria, ineludibile, che va posta prima di ogni argomento pro o contro l’immigrazione: in casa nostra vengono prima i nostri. In altre nazioni, da tempo si discute della possibilità di una legge per lapreferenza nazionale. A inventare il termine fu, nel 1985, l’intellettuale e di lì a qualche anno eurodeputato del Front national Jean-Yves Le Gallou. OggiMarine Le Pen ha ancora il concetto nel programma del partito, sia pur declinandolo come “priorità nazionale”, formula ritenuta meno traumatica.



Ora, una iniziativa per la preferenza nazionale deve partire da alcuni punti molto semplici. Per esempio l’inserimento della cittadinanza italiana come parametro che determini un punteggio aggiuntivo per l’ingresso in graduatoria relativo all’assegnazione di alloggi popolari. Oppure il divieto di indire bandi e concorsi in cui la condizione di immigrato fornisca punteggi supplementari o garantisca agevolazioni di qualsiasi tipo. O ancora, servirebbe una revisione della legge sulla liberalizzazione degli orari dei negozi, che 
ha consentito negozi di immigrati di attuare concorrenza sleale nei confronti dei commercianti italiani senza alcun riguardo per la qualità e le basilari regole igienico-sanitarie. Bisognerebbe poi abrogare quelle leggi che hanno stravolto impianti legislativi ben più ponderati. La legge Turco-Napolitano del 1998, per esempio, aboliva il vincolo di reciprocità che prevedeva la possibilità di svolgere in Italia un’attività imprenditoriale solo ai cittadini stranieri provenienti dai Paesi che concedevano tale opportunità anche all’immigrato italiano.
E perché non prevedere la possibilità, da parte della questura, di rifiutare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro qualora sia accertata l’iscrizione agli uffici di collocamento di italiani disoccupati che abbiano caratteristiche idonee a quell’impiego? Lo ha già stabilito la circolare Guéant emessa dal ministero dell’Interno francese il 31 maggio 2011. Quella circolare fu poi abrogata, ma il dispositivo generale è restato in piedi: ancora oggi un’impresa francese che voglia assumere un extra-comunitario deve provare di aver fatto ricerche infruttuose sul mercato del lavoro nazionale.
Ci sono poi sentenze che persino in questa Ue vanno nella direzione giusta ma che vengono poi fatte applicare ad alcuni sì e ad altri no, secondo la legge dei figli e figliastri che è dominante a livello comunitario e che, sia detto per inciso, è uno dei motivi per cui l’Unione europea non funziona. Pensiamo alla sentenza della Corte di giustizia europea nella causa C-333/13 dell’11 novembre 2014, secondo la quale nella Ue “uno Stato membro deve avere la possibilità di negare le prestazioni sociali ai cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la loro libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato membro”. Lo straniero, anche comunitario, che non lavora né cerca un impiego deve poter essere espulso. Va bene l’accoglienza, va bene le ragioni della solidarietà. Ma se poi non hai lavoro e non lo cerchi, se ti adagi in un’esistenza di parassitismo, nel migliore dei casi, e di lavori fuorilegge, nel peggiore, te ne torni a casa tua. In Germania già lo fanno, ma a noi non è permesso. Ce lo chiede l’Europa, dicono, di tenere chiunque. La stessa Europa che permette ad altri di cacciare via chi non si integra.
Tutto ciò è razzista? Niente affatto. È comune buon senso. Nessuno di noi farebbe l’elemosina a un clochard incrociato in un vicolo se si trovasse nelle condizioni di stare per vedere in mezzo a una strada la propria famiglia. Prima si sistema la propria casa, poi viene il resto. E questo non perché alcune situazioni di disagio e di miseria non suscitino universale commozione, ovunque accadano o chiunque le subisca. È solo che ognuno di noi ha delle responsabilità dirette e dei legami particolari. Non esistono gli altri in senso generico, esistono quelli che il filosofo Charles Taylor chiama “gli altri significativi”. Una geografia delle relazioni che non può che andare per cerchi concentrici: prima vengono i miei figli, poi i miei nipoti, poi i miei vicini, poi i miei concittadini, poi i miei connazionali, poi chi fa parte della stessa grande civiltà e così via. È tramite il particolare che noi accediamo all’universale.
Poi va da sé che ci siano molti non italiani migliori – per competenza o per qualità umane – di tanti italiani, così come nella mia famiglia possono esserci delle pessime persone mentre la famiglia Ahmed può essere piena di persone del tutto stimabili. Esistono le eccezioni, e una prassi intelligente, sia a livello individuale che collettivo, deve tenerne conto. Ma il fatto di dare la priorità ai “miei”, fatti salvi i casi estremi, non implica una gerarchizzazione delle persone e dei popoli. Non si dice che prima debbano venire gli italiani perché gli italiani sono “meglio”. È solo una questione di responsabilità: lo Stato italiano deve occuparsi degli italiani, così come io sono responsabile innanzitutto di mio figlio e lo sono anche se il figlio del vicino è più bravo e più buono. Ma quello è suo e questo è mio ed è di lui che devo occuparmi, perché è di lui che devo rispondere.