Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e
la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto
Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali
fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la
vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della
vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e
Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù
postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza
tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino).
La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del
capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori,
incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.
La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di
sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi
che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava
“unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure
“Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta
per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva
imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra
capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già
allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci
permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli
artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose
molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed
intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla
maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido
campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far
invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno
dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali
che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici
straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione
delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come
“un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine
veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e
sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col
composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
La parte più viva del suo pensiero politico è raccolta
ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione,
impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni
particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine,
consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche,
l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e
non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti.
Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto
verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà
per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle
arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella
risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse,
ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi
senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora
introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei
costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in
cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la
preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà.
Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme
conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a
Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra
e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista
armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai
diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual
volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per
uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna
“turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza
mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale
delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto
aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede
nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi
confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare
il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da
sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come
“maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è
da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti
gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non
fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel
frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la
fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi,
sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non
sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di
personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il
valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le
biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno
Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe
lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo
impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una
visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E
questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle
cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale”
prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee
dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle
cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi,
nelle nostre, ci credevamo”.
(Di
Michele de Feudis – Da Barbadillo.it)