lunedì 2 febbraio 2015

L’attualità di Berto Ricci? L’eresia visionaria dell’Italia imperiale

Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino). La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori, incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.

La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava “unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure “Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come “un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
La parte più viva del suo pensiero politico è raccolta ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione, impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine, consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche, l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti. Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà. Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna “turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come “maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale” prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo”.


(Di Michele de Feudis – Da Barbadillo.it)