Quella catalana, si sa, è una terra politicamente
calda, sempre più segnata dai conflitti politico-ideologici che stanno
lacerando il legame tra il polo orientale “spagnolo” (volutamente virgolettato)
e il governo centrale della nobile Madrid.
La scorsa settimana ho avuto la fortuna e il piacere di soggiornare a
Barcellona, allontanandomi per qualche giorno dal freddo invernale che
caratterizza l’Italia, fredda non solo dal punto di vista climatico.
E’ doveroso precisare che, nonostante il buon livello di spagnolo, il mio
approccio con i luoghi pubblici della “Ciutat” è stato piuttosto difficile:
dall’aeroporto alla stazione della metropolitana, dalle piazze ai monumenti
orientarsi risulta piuttosto difficile. Il motivo? Una semplice quanto
determinante ragione: quella linguistica. Il bilinguismo in Catalunya è una
realtà, certo, ma non è universale e, dove era necessario scegliere, ad essere
accantonato è stato inesorabilmente lo spagnolo (anzi, ad essere precisi, il
castigliano).
Immaginate un turista romano che, inoltrandosi tra i vicoli veneziani, si trovi
di fronte solo cartelli in lingua veneta: il panico sarebbe assicurato, il
nervosismo ancor più evidente.
L’uso predominante del catalano, tuttavia, non è tanto una trovata goliardica
quanto, invece, una dimostrazione lampante di appartenenza, una spilla
d’orgoglio riposto nella propria Comunità. I più irredenti, forgiati nella
propria causa ideologica, rifiutano persino di usare la lingua nazionale,
simbolo demoniaco di uno Stato oppressore e tiranno che sta privando questo
popolo della propria libertà.
Il conservatorismo idiomatico è, in ogni caso, solo la punta di un iceberg
nemmeno troppo nascosto. Camminando per la città, vi sarà impossibile non
accorgervi di un lampante dettaglio: in ogni palazzo, dai quartieri più
popolari a quelli più ‘altolocati’, la bandiera catalana campeggia su molti
balconi, spesso accompagnata da striscioni e cartelli che incitano la svolta
indipendentista e ricordano con orgoglio e disprezzo il tentato referendum del
9 novembre scorso.
Nel caso chi legge volesse visitare Barcellona, inoltre, è necessaria una
raccomandazione: mai additare un negoziante o un passante come spagnolo, pena
una serie di feroci insulti e sguardi truci.
Nonostante la digressione, questo articolo non vuole essere un elogio del più
sfrenato indipendentismo, mai stato proprio di chi scrive. Quella catalana è
una lotta tanto sentita quanto esasperante, radicalizzata al punto da diventare
quasi fastidiosa; l’appartenenza culturale è però una realtà da cui molti
cittadini nostrani dovrebbero prendere spunto per riscoprire una volta per
tutte le proprie nobili e radicate origini.
L’aspetto che mi preme sottolineare dopo questa lunga digressione è l’idea di
lotta politica che caratterizza la città di Barcellona, da questo punto di
vista tanto sorprendente quanto ispirante.
Ritornando in albergo dopo il mio primo giorno di visita, infatti, mi sono
imbattuto in una grande manifestazione con tanto di cori, striscioni e
volantini lanciati all’aria. Incuriosito ho avvicinato uno dei dimostranti per
saperne di più: dal suo resoconto ho capito che la battaglia che attualmente
caratterizza il popolo barcellonese è quella a tutela dei quartieri storici e
popolari, sempre più dilaniati dall’amministrazione cittadina.
Ormai schiavi del turismo e in balia di un degrado fisico e sociali, infatti,
gli abitanti dei “barrios” popolari come Gràcia e Lesseps sono insorti contro
la commercializzazione della propria Terra in luogo del mero guadagno
economico. Uniti solo dall’appartenenza territoriale, i manifestanti intonavano
cori di accusa contro la gestione capitalistica e suicida dei propri
rappresentanti, senza bisogno di simboli di ordine partitico a fare da
contenitore ideologico e briglia alla loro rabbia. L’anticapitalismo come
manifesto, uno striscione come vessillo: tanto facile quanto spontanea è stata
l’associazione mentale che mi ha ricondotto ai tanto accusati e bistrattati
sostenitori di concetti come quel “prima gli italiani” che, per motivi
profondamente diversi, sta diventando un motto ugualmente fondamentale
per molti italiani che non si arrendono.
Una sfida che proprio la nostra Comunità, sempre al fianco dei vincentini, si
prepara a portare alla luce piazza dopo piazza, via dopo via a difesa delle
tanto combattute case popolari che, per molti concittadini, si sono trasformati
da risorsa a vero e proprio incubo.
Inutile sottolineare come questa scena abbia felicemente stuzzicato la mia
anima politica e mi abbia permesso di avvicinarmi ideologicamente a chi
combatte a difesa della propria Terra, della propria Casa.
In un’Italia affannata e fiaccata dalle mille discussioni da salotto sulle
grandi manovre burocratiche, lo spazio per l’insurrezione popolare va
spegnendosi, sopito da una repressione tanto invisibile quanto efficace fatta
di finte libertà e di lussi effimeri e disorientanti. Ecco allora un
esempio di vita reale, di lotta concreta ed efficace, antitesi del tanto comune
concetto del “tutto il mondo è Paese”: fuori dalla vostra cameretta, al di là
dello schermo del vostro computer si celano popoli e persone che hanno ancora
la forza di ribellarsi alle oppressioni, ansiosi di reclamare la propria
libertà e la propria sovranità; se per farlo è necessario sventolare una
bandiera catalana, ben venga, purché questa non offuschi l’obiettivo primario.
Per questo motivo ringrazio a distanza la città di Barcellona e il popolo
catalano, capaci di stimolare ancor di più la mia voglia di far sentire la mia
voce al di là delle mediatiche cupole di vetro.
In ogni caso va precisata una cosa: questa è Vicenza, mica Barcellona; questo è
Ariete, non il movimento catalano.
Ciò nonostante, l’imperativo è uno, lo stesso per entrambi: combattere,
ribellarsi, non sottomettersi. E noi, come al solito, saremo pronti ad
arrembare sempre. Preparatevi, perché ormai siamo pronti: teste calde e sorrisi
d’assalto, alla riconquista di ciò che è nostro.
A.F.