martedì 24 marzo 2015

I padroni dei concetti

(Di Lorenzo Vitelli – Da “L’intellettuale dissidente”) 
“- […] Questo è gloria per te!
- Non capisco cosa intenda per “gloria”, – disse Alice.
Tappo Tombo sorrise sprezzantemente. – É naturale che tu non capisca… finché non te lo spiegherò io. Significa: “Questo è un ragionamento schiacciante per te!”
- Ma “gloria” non significa “ragionamento schiacciante”, – obiettò Alice.
- Quando io adopero una parola, – disse Tappo Tombo, in tono piuttosto sdegnoso, – significa esattamente quel che ho scelto di fargli significare… né più né meno.
- La questione è, – disse Alice, – se lei può fare in modo che le parole significhino le cose più disparate.
- La questione è, – disse Tappo Tombo, – chi è il padrone… ecco tutto”

(Lewis Carroll, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò)
Le parole non sono solo parole, sono i ponti semantici che legano l’immaginario collettivo al reale. Sono la realtà rappresentata da una comunità. Questa rappresentazione può essere più o meno veritiera, più o meno ideologica. Modificare il senso delle parole vuol dire modificare il modo in cui gli individui percepiscono l’esistente. Mentre i dialetti e le particolarità linguistiche si annullano e la lingua diventa un processo unidirezionale calato dall’alto – pensiamo a neologismi quali omofobia, diritti umani, austerità, spread – il significato delle parole non nasce più spontaneamente dalla comunità. Il processo di significazione interno al lessico non è stabilito comunemente, ma è monopolio di qualcuno. Come dice Tappo Tombo, l’importante è capire chi è il padrone. Qualcuno detiene il monopolio dei concetti, crea neologismi, inventa parole-trappola e “ghetti semantici” in cui segregare il pensiero antagonista. Accanto ad ogni stravolgimento socio-politico una serie di attori – tra cui Media, intellettuali, accademie, università, giornali e giornalisti, politici e dirigenti – pervertono il rapporto tra significati e significanti, rendono funzionali ai loro interessi gli eventi, i fatti, le vicende. Lo slogan “Je suis Charlie”, per esempio, è diventato un marchio pubblicitario, si è sovrapposto alla realtà divenendo più vero del reale, è una strettura semantica che bolla immediatamente chi vi esce come “fomentatore di odio”. Ma chi è Charlie? cosa significa “Je suis Charlie”? Invero nulla, perché di quella vicenda non abbiamo nessun dettaglio. Nell’immaginario collettivo è diventato il simbolo della libertà. Dietro questi slogan i fatti spariscono, rimangono solo le interpretazioni, mediate dalle parole, gestite da qualcun’altro – sempre a monte! – in modo unidirezionale, univoco.
E la realtà dov’è finita? Filtrata, mediata, riprodotta, abusata, calpestata: viviamo in un mondo di simulacri. La lingua riesce ad entrare tanto nel nostro quotidiano che stiamo rimettendo in causa anche le evidenze, anche i concetti quali “uomo” e “donna”, “famiglia” e “identità”, “guerra” e “pace”. Mentre la corretta informazione diventa un lusso per pochi, e il vero significato delle parole appartiene solo ai più colti, la grande massa non pensa più con la lingua, ma è la lingua che pensa per lei. Il patrimonio lessicale dell’italiano ammonta a più di 260 mila lessemi, ma in media ne usiamo solo 6 mila. Oltre la ristretta visione del mondo che comporta un uso così basso, possiamo pensare che è più facile, per chi vuole operare sul rapporto tra significato e significante, avere un’influenza su 6 mila parole, piuttosto che su 260 mila. Dalla criticità di una simile questione nasce l’esigenza di ritrovare un rapporto veritiero con i fatti, con il mondo che ci circonda.