mercoledì 18 marzo 2015

Economisti dell’anti-bellezza

La Buona Scuola di Renzi convince poco. Non piace agli studenti, non esalta i professori e, soprattutto, non convince la classe intellettuale più influente di questi tempi, ovvero quella degli economisti, i critici più radicali e dogmatici del sistema educativo italiano. Le staffilate dalle menti economiche sono indirizzate soprattutto al vetusto Liceo Classico, visto alla stregua di un decadente pachiderma di epoca fascista buono solo per la rottamazione. Un’istituzione colpevole di insegnare l’aoristo passivo e le origini della cultura nostrana piuttosto che concentrarsi sui mitocondri e l’origine della vita (così Andrea Ichino, economista, si pronunciò dialogando con Umberto Eco lo scorso novembre a Torino). D’altronde, che la lettura di Dante o lo studio della filosofia possano essere ancora considerati, nel 2015, un elemento formativo a respiro universale è inamissibilmente retrò. Imporli in un mondo iper-tecnologizzato, dominato da parametri economici che sminuiscono ciò che non è strettamente utile (perché non quantificabile), è un crimine, un abominio.

Questa è la categorica opinione di Michele Boldrin, economista e professore presso la Washington University, noto liberale e leader del movimento “Fare per Fermare il Declino”. Intervenendo presso l’Università Bocconi in un dibattito sull’educazione, o meglio sulla “e-Ducation”, Boldrin ha attaccato, armato dell’implacabile mannaia delle incontrovertibili statistiche, l’intero sistema scolastico italiano, della cui essenza retrograda il Classico è solo il più illustre esponente. Secondo l’economista, la centralità degli studi umanistici che ancora affligge la scuola nostrana rimane, mutatis mutandis, di impronta gentiliana, volta quindi a formare una precisa personalità, quella del patriota, che è completamente inadatta al mondo senza frontiere in cui, volenti o nolenti, ci troviamo. A proposito di statistiche, sarebbe interessante verificare il numero di professori che oggi, entrando in classe, si prefiggono di formare fiere schiere di patrioti piuttosto che trasmettere, meno arditamente ma più realisticamente, l’amore per la conoscenza. Ad ogni modo, Boldrin propone una riforma complete dell’intero sistema, dagli undici anni in su: introduzione di cinque anni di scuola media imperniata sullo studio della matematica, della scienza naturale ed economica, dell’informatica, della lingue italiana e, ovviamente, dell’inglese (e delle altre lingue straniere, possibilmente il cinese). Niente religione, filosofia, latino, greco, storia dell’arte, musica, letteratura. Tali materie dovrebbero divenire “electives”, ossia materie liberamente scegliibili dagli studenti che decidono di proseguire gli studi dopo i primi cinque anni (come accade nel mondo anglosassone): “Shakespeare è un prodotto di lusso, uno di quelli molto costosi”. La bellezza, che non può essere offerta alla massa perché non utile a formare una futura forza-lavoro produttiva, dovrebbe rimanere una prerogativa delle élite che, nei loro salotti borghesi, hanno tempo e denaro per disquisire dei filosofi à la page (“purché non sia Fusaro”). “A un diciassettenne di Catanzaro, di queste cose, che importa?”, si chiede l’economista che sembra escludere che i diciassettenni meridionali possano, di tanto in tanto, interrogarsi sul perché si debba vivere e, soprattutto, perché si debba vivere per produrre e consumare.

Il trade-off tra il continuare ad insegnare materie demodées e materie al passo coi tempi potrebbe misurarsi, secondo Boldrin, nei seguenti termini: “quanti musicisti decenti produciamo con due - tre ore di musica a settimana a costo di quanti programmatori informatici perdiamo”. Oltretutto l’Italia non ha un “vantaggio comparato” nella produzione di piccoli Verdi, tanto più che attualmente il mercato non domanda Verdi ma Beyoncé. D’altronde il capitale umano di un paese è utile nella misura in cui è in grado di produrre quanto il resto del mondo domanda. Non fa, più o meno, una piega. E, a onor del vero, alcune considerazioni dell’economista sono ragionevoli e condivisibili, come la critica ad una scuola che fomenta una competizione eccessiva tra studenti (osservazione più che legittima, peccato che la competizione sia il perno del sistema educativo anglosassone, nonché dell’ordine economico liberale e mondialista). Ciò che invece è più che opinabile è che la scuola debba in primis formare e sfornare elementi produttivi e operativi, istruiti al solo criterio dell’utile, riservando l’educazione alla bellezza a chi, come Boldrin, se lo può permettere. Per Adriano Olivetti intellettuali e letterati erano necessari ovunque, anche nei settori industriali alla frontiera tecnologica. E, soprattutto, nessuno poteva essere così povero da non essere mai iniziato alla bellezza di un Leopardi. D’altronde, come nota il filosofo inglese Scruton, “il giudizio estetico è una componente necessaria per realizzare bene qualunque cosa”. Utile memorandum per chi pensa che un futuro artigiano, agricoltore o operaio possa essere meno produttivo commuovendosi leggendo Dante.

(Di Benedetta Scotti - Da "L'intellettuale dissidente")