La Buona Scuola di Renzi convince poco. Non piace agli studenti, non
esalta i professori e, soprattutto, non convince la classe intellettuale più
influente di questi tempi, ovvero quella degli economisti, i critici più
radicali e dogmatici del sistema educativo italiano. Le staffilate dalle menti
economiche sono indirizzate soprattutto al vetusto Liceo Classico, visto alla
stregua di un decadente pachiderma di epoca fascista buono solo per la
rottamazione. Un’istituzione colpevole di insegnare l’aoristo passivo e le
origini della cultura nostrana piuttosto che concentrarsi sui mitocondri e
l’origine della vita (così Andrea Ichino, economista, si pronunciò dialogando
con Umberto Eco lo scorso novembre a Torino). D’altronde, che la lettura di
Dante o lo studio della filosofia possano essere ancora considerati, nel 2015,
un elemento formativo a respiro universale è inamissibilmente retrò. Imporli in
un mondo iper-tecnologizzato, dominato da parametri economici che sminuiscono
ciò che non è strettamente utile (perché non quantificabile), è un crimine, un
abominio.
Questa è la categorica opinione di Michele Boldrin, economista e
professore presso la Washington University, noto liberale e leader del
movimento “Fare per Fermare il Declino”. Intervenendo presso l’Università
Bocconi in un dibattito sull’educazione, o meglio sulla “e-Ducation”, Boldrin
ha attaccato, armato dell’implacabile mannaia delle incontrovertibili
statistiche, l’intero sistema scolastico italiano, della cui essenza retrograda
il Classico è solo il più illustre esponente. Secondo l’economista, la centralità
degli studi umanistici che ancora affligge la scuola nostrana rimane, mutatis
mutandis, di
impronta gentiliana, volta quindi a formare una precisa personalità, quella del
patriota, che è completamente inadatta al mondo senza frontiere in cui, volenti
o nolenti, ci troviamo. A proposito di statistiche, sarebbe interessante
verificare il numero di professori che oggi, entrando in classe, si prefiggono
di formare fiere schiere di patrioti piuttosto che trasmettere, meno
arditamente ma più realisticamente, l’amore per la conoscenza. Ad ogni modo,
Boldrin propone una riforma complete dell’intero sistema, dagli undici anni in
su: introduzione di cinque anni di scuola media imperniata sullo studio della
matematica, della scienza naturale ed economica, dell’informatica, della lingue
italiana e, ovviamente, dell’inglese (e delle altre lingue straniere, possibilmente
il cinese). Niente religione, filosofia, latino, greco, storia dell’arte,
musica, letteratura. Tali materie dovrebbero divenire “electives”, ossia
materie liberamente scegliibili dagli studenti che decidono di proseguire gli
studi dopo i primi cinque anni (come accade nel mondo anglosassone):
“Shakespeare è un prodotto di lusso, uno di quelli molto costosi”. La bellezza,
che non può essere offerta alla massa perché non utile a formare una futura
forza-lavoro produttiva, dovrebbe rimanere una prerogativa delle élite che, nei
loro salotti borghesi, hanno tempo e denaro per disquisire dei filosofi à
la page (“purché
non sia Fusaro”). “A un diciassettenne di Catanzaro, di queste cose, che
importa?”, si chiede l’economista che sembra escludere che i diciassettenni
meridionali possano, di tanto in tanto, interrogarsi sul perché si debba vivere
e, soprattutto, perché si debba vivere per produrre e consumare.
Il trade-off tra il continuare ad insegnare
materie demodées e materie al passo coi tempi
potrebbe misurarsi, secondo Boldrin, nei seguenti termini: “quanti musicisti
decenti produciamo con due - tre ore di musica a settimana a costo di quanti
programmatori informatici perdiamo”. Oltretutto l’Italia non ha un “vantaggio
comparato” nella produzione di piccoli Verdi, tanto più che attualmente il
mercato non domanda Verdi ma Beyoncé. D’altronde il capitale umano di un paese
è utile nella misura in cui è in grado di produrre quanto il resto del mondo
domanda. Non fa, più o meno, una piega. E, a onor del vero, alcune
considerazioni dell’economista sono ragionevoli e condivisibili, come la
critica ad una scuola che fomenta una competizione eccessiva tra studenti
(osservazione più che legittima, peccato che la competizione sia il perno del
sistema educativo anglosassone, nonché dell’ordine economico liberale e
mondialista). Ciò che invece è più che opinabile è che la scuola debba in
primis formare e
sfornare elementi produttivi e operativi, istruiti al solo criterio dell’utile,
riservando l’educazione alla bellezza a chi, come Boldrin, se lo può
permettere. Per Adriano Olivetti intellettuali e letterati erano necessari
ovunque, anche nei settori industriali alla frontiera tecnologica. E,
soprattutto, nessuno poteva essere così povero da non essere mai iniziato alla
bellezza di un Leopardi. D’altronde, come nota il filosofo inglese Scruton, “il
giudizio estetico è una componente necessaria per realizzare bene qualunque
cosa”. Utile memorandum per chi pensa che un futuro
artigiano, agricoltore o operaio possa essere meno produttivo commuovendosi
leggendo Dante.
(Di Benedetta Scotti - Da "L'intellettuale dissidente")
(Di Benedetta Scotti - Da "L'intellettuale dissidente")