Signor de Benoist, quasi quattro milioni di persone
che sfilano, dopo gli attacchi, per un giornale che vende a mala pena 30.000
copie, è in sé un avvenimento. Grande momento di comunione nazionale o psicosi
collettiva?
Le proteste avrebbero avuto senso se si fossero semplicemente limitate a
esprimere solennemente il rifiuto del terrorismo da parte del popolo francese.
Organizzate dal governo e dai partiti politici, si sono trasformate in una
immensa ondata di identificazione vittimista simboleggiata dallo slogan “Io
sono Charlie,” promosso in modo orwelliano a nuova parola d’ordine
“repubblicana”. Pertanto, non si trattava più di condannare degli attentati e
degli assassini quanto di identificarsi con i “valori” di Charlie Hebdo, vale a
dire con la cultura della blasfemia e della derisione.
Durante la manifestazione e nei giorni che sono seguiti, in una Francia
priva di peso e spinta in una “piccola morale”, si è visto di tutto. Le campane
di Notre Dame di Parigi hanno suonato la campana a morto per i mangiapreti.
L’”unità nazionale”, senza il Fronte Nazionale. “La libertà di espressione”
ridotta al diritto alla blasfemia e all’arresto di Dieudonné. Quella dei
vignettisti del personaggio bersagliato (Maometto che sodomizza un maiale: così
folle! Christiane Taubira come scimmia: intollerabile!). Battaglioni di capi di
Stato (il doppio del G20!) che cantano le lodi di una testata di cui non
avevano mai sentito parlare otto giorni prima. Milioni di zombie di corsa alle
edicole per comprare, come l’ultimo smartphone, un giornale che non avevano mai
avuto la curiosità di aprire negli ultimi venti anni. La spilla “Sono Charlie”
ha sostituito il nastro per l’AIDS e la manina di “Giù le mani dal mio amico”.
Spettacolo surreale! Tutti sono gentili, tutti sono Charlie, nel grande ospizio
occidentale trasformato in asilo. I redattori di Charlie Hebdo, che tutto
avrebbero accettato meno che essere “consensuali”, saranno stati i primi a
essersi stupiti di vedersi così canonizzati. Per quanto riguarda i jihadisti,
avranno riso abbastanza: una sfilata di pecore non ha mai impressionato i lupi.
Questi cortei possono essere messi sullo stesso
piano del corteo gollista sugli Champs-Élysées, nel 1968, o le marce contro
Jean-Marie Le Pen nel 2002 o l’alluvione di Manif pour tous?
Non lo credo. Per Valls e Hollande, la manifestazione aveva almeno sei
obiettivi: emarginare il Front National e neutralizzare l’UMP (che ovviamente è
caduto nella trappola a capofitto) in nome dell’”unione sacra”, coagulare i
Francesi intorno a una classe politica di governo screditata, giustificare
l’impegno della Francia in una nuova guerra in Iraq nella quale non ha nulla a
che vedere, creare uno spazio europeo di polizia di cui si sa in precedenza che
non sono solo gli islamisti che saranno sorvegliati (Manuel Valls dice, senza
ridere, che “le misure eccezionali” che sta per prendere non saranno misure
d’eccezione!), far credere che il terrorismo che oggi ci troviamo di fronte ha
a che fare più con il Vicino Oriente che con l’immigrazione e la situazione
delle periferie, infine convincere l’opinione pubblica che, “di fronte al
terrorismo”, la Francia, fedele vassallo del califfato degli Stati Uniti, non
può che essere solidale con i paesi occidentali che non hanno mai smesso di
incoraggiare l’islamismo, annegando i propri errori e i loro crimini dietro la
cortina fumogena dello “scontro di civiltà” (Putin non era stato invitato,
chiaramente!). Si deve riconoscere che questi obiettivi sono stati raggiunti.
Ho avuto torto, in una precedente intervista, a parlare di reazioni
spontanee. Le cose alle quali hanno avuto diritto i giornalisti di Charlie
Hebdo – ma non lo sfortunato ostaggio francese decapitato in Algeria Hervé
Gourdel tre mesi prima – sono state in realtà plasmate da imposizioni sociali e
mediatiche, la grande fabbrica postmoderna della commozione e delle emozioni.
Ci vorrebbe un libro intero per analizzare in dettaglio questo colpo da maestro
che ha permesso, nel giro di qualche ora, di recuperare la rabbia popolare a
beneficio di una adesione “repubblicana” all’ideologia dominante e di una
“unità nazionale” destinata soprattutto a reindirizzare la curva di popolarità
del capo dello Stato. La classe politica governativa appare così come la
principale beneficiaria della legittima emozione sollevata dagli attentati.
E’ stata registrata negli ultimi giorni una
recrudescenza di atti antimusulmani (attacchi contro le moschee, ecc). Ciò vi
sorprende?
Mi sorprende soprattutto perché gli attentati sono fatti per questo: stimolare
una islamofobia che i terroristi jihadisti considerano come un “vettore di
radicalità” privilegiato. I terroristi islamici adorano gli islamofobi. Sperano
che ce ne siano sempre di più. Sanno che più i musulmani si sentiranno respinti
dai non-musulmani, più loro potranno sperare di convincerli e radicalizzarli. I
jihadisti assicurano che essi rappresentano il “vero Islam”, gli islamofobi
danno loro ragione dicendo che non c’è differenza tra l’Islam e l’islamismo.
Che i primi commettono degli attentati, mentre i secondi vedrebbero senza
dispiacere moltiplicarsi i pogrom contro coloro che “rifiutano il sistema di
vita occidentale” (il simpatico stile di vita globale del consumo sottomesso)
non cambia nulla. Gli islamofobi sono gli utili idioti dell’islamismo radicale.
Al tempo della guerra in Algeria, che io sappia, non se ne faceva una
colpa agli harki di essere musulmani, e nessuno si è mai sorpreso del fatto che
ci fossero delle moschee nei dipartimenti francesi d’Algeri, di Orano e di
Costantina. Da parte mia, io non farei ai terroristi islamici il regalo di
divenire islamofobo. E non fantasticherei più sulla “Francia musulmana” come
Drumont fantasticava sulla Francia ebraica (1885), associando meccanicamente
Islam e terrore come altri associavano una volta gli ebrei al denaro. (da
Boulevard Voltaire)
(Di Nicholas Gautier, traduzione di Manlio Triggiani – Da “Barbadillo.it”)