(Di Adriano Scianca – da “Il primato nazionale”)
Il 7 aprile 1985, a Plettenberg, comune della Renania
Settentrionale-Vestfalia con poco meno di 30mila abitanti, moriva Carl Schmitt,uno dei più influenti e discussi
autori tedeschi del Novecento. La sua opera, da tempo “recuperata” al pensiero
ufficiale di sinistra ha influenzato Leo Strauss, Jacques Derrida, Gianfranco Miglio, Giorgio Agamben,
Giacomo Marramao, Pietro Barcellona, Massimo Cacciari. Il tutto, ovviamente, non senza i
consueti psicodrammi.
Se i meriti propriamente culturali, filosofici,
giuridici di Schmitt sono di per sé immensi, l’autore ha infatti diviso
l’opinione pubblica per la sua ben nota militanza nei ranghi del
nazionalsocialismo. Esattamente come nel caso di Martin Heidegger, con
cui del resto si confrontò più volte, anche su Schmitt il dibattito è fra
sordi: da una parte i difensori d’ufficio, che minimizzano quasi fino al falso
storico, dall’altra i pubblici ministeri spirituali.
Quello che per Heidegger è Emmanuel Faye, per
Schmitt è Yves Charles Zarka, l’uomo che dello
smascheramento del nazismo del giurista ha fatto una missione di vita.
L’operazione sbirresca di Zarka trova ovviamente sponda in articoli come “Der
Fuhrer schütz das Recht”, in cui Schmitt produceva una sorta di giustificazione
giuridica “decisionista” della notte dei lunghi coltelli, ma soprattutto in cose
come “Die deutsche Rechtswissenschaft im Kampf gegen den jüdischen Geist”, vero
atto d’accusa dello spirito corruttore ebraico (gli articoli “incriminati” sono
recentemente stati ripubblicati in italiano da 'Il melangolo' in un libretto dal
sobrio titolo Carl Schmitt sommo giurista del Führer).
Al solito, il dibattito è sbilenco e tra il rogo e
la beatificazione manca la sintesi del semplice riconoscimento che attorno ai
fascismi si è annodata una parte corposissima della cultura novecentesca, con
entusiasmo e radicalità. Questo è un problema per la cultura liberal-democratica che non può oggettivamente rinunciare al contributo di certi autori ma al tempo stesso ne teme i risvolti politici? La risposta è molto semplice: peggio per essa.
La pericolosità di Carl Schmitt per il pensiero
dominante va del resto ben oltre la parentesi nazionalsocialista della sua vita
e del suo pensiero ed è anzi un alibi e una scorciatoia quello di
neutralizzarne il pensiero in base a quante volte il giurista ha nominato Hitler nei
suoi scritti degli anni ’30.
Schmitt ci ha insegnato a essere fedeli alla terra,
che è l’unica dimensione in cui sia possibile tracciare confini e quindi fare
politica, nonché a difenderla dalle esondazioni del mare, dalla piatta bassa
marea che tutto eguaglia e tutto cancella. Ci ha insegnato a concepire l’Europa come grande spazio imperiale e autogestito, protetto da una
“dottrina Monroe” rovesciata, che inibisca ingerenze e influenze straniere. Ci
ha insegnato che pensare e essere significa sempre pensare un nemico ed essere
un nemico per qualcun altro, che riconoscere il nemico per ciò che è
costituisce non solo una forma di rispecchiamento esistenziale, ma anche un antidoto agli stragismi, che nascono sempre in nome
dell’umanità. Ci ha insegnato, infine, che al centro della norma, della regola,
del sistema, c’è sempre una libertà abissale e originaria che si concreta in una
decisione.
Oggi viviamo in mezzo a una tenaglia, la tenaglia
della necessità che stritola la nostra residua libertà storica. Il braccio di
destra della tenaglia è rappresentato dalla destra tecnocratica e liberale, che impone misure
economiche “necessarie” la cui discussione è ritenuta al di fuori della portata
della classe politica. Il braccio di sinistra della tenaglia è rappresentato
dalla sinistra genderista che, sui “temi civili”, impone un
dibattito senza controcanto, un monologo la cui ragione viaggia sulle ali dello
Zeitgeist.
Lo spazio per ciò che possiamo davvero decidere si
restringe ogni giorno di più. L’idea di un senso unico della storia, della
politica, della vita si afferma sempre di più come orizzonte ultimo. È
precisamente in questo che Schmitt è rivoluzionario. La sua decisione è una
fenditura sul mondo piatto della necessità, un’apertura di libertà. Un albeggiare
di destino.