(Di Ippolito Emanuele Pingitore – da “L’intellettuale dissidente”)
C’è un residuo ideologico che, a distanza di settanta anni dalla caduta
del Fascismo storico, è duro a sconfiggersi più che la morte: l’antifascismo.
Qualsiasi discussione politica e sociale che si allontani da un certo tipo di
buonismo – o sentimentalismo che dir si voglia – assume il carattere di
fascismo.
La questione può essere intesa su due livelli di discussione. Avremo
perciò un politica
antifascista e un atteggiamento antifascista. Di fatto una politica antifascista
è completamente inutile al discorso pubblico per ovvie ragioni: si può
affermare che ciò distolga l’attenzione da questioni più concrete e che dunque
funzioni da catalizzatore ideologico del sistema, si può affermare che una
politica antifascista sia una presa di posizione ideologica che non abbia alcun
legame concreto con la realtà e che non ha senso parlare di antifascismo in
assenza di fascismo. Questo primo livello è quello che anima il discorso
politico e pubblico, ma fascismo è una categoria talmente vaga che
finisce per dire tutto e niente, per parlare del tutto e del più, senza
giungere ad un senso oggettivamente condivisibile.
Rientra in questo tipo di politica la discussione intorno ai diritti civili,
all’immigrazione e ad ogni tematica che tiri in causa l’Altro più debole
legalmente o moralmente, ma anche chi esprime posizioni che si pongono a
distanza dalla concezione occidentale di democrazia. Dire di essere a favore di
una immigrazione regolare assume l’etichetta del fascismo, così come dire di
non essere favorevole al riconoscimento delle adozioni da parte delle coppie
omosessuali. E’ fascismo il Movimento 5 Stelle, è fascista Putin. E’ fascismo.
E non c’è altro ragionamento che possa deviare l’esito del discorso che,
altrimenti, resterebbe chiuso. Beninteso: è del tutto legittimo che qualcuno
consideri Tizio o Caio come violento, come pericolo “democratico”, posto che
quella che noi intendiamo essere democrazia lo sia in termini concreti. Ma una
presa di posizione comporta l’obbligo di argomentazione che, altrimenti, non si
presenterebbe diversa da un insulto gratuitamente donato. Se ogni istanza non
condivisa è fascista, sarebbe meglio non discutere proprio. Allora
l’antifascismo si configura come una pratica
dell’etichettatura che non ha
bisogno di riflettere, ma di avere la meglio, guardandosi molto bene dal
toccare la sostanza del discorso che invece si presenterebbe spinoso e degno di
aratura intellettuale.
Al di là della retorica trita e ritrita, l’antifascismo è una categoria
oppositiva che non prelude ad un risanamento, ad una sintesi, ma che, anzi, si
bea tranquillamente del suo scontro di posizione. Stando ancora immersi in
questa nube ideologica si corre il rischio di assumere posizioni che finiscono
per allontanarsi dalla realtà e che influenzano la propria (parziale)
concezione del mondo. Come se non bastasse, l’antifascismo finisce per
costituire un a priori dispregiativo, atto a catalogare l’altro secondo una
serie di luoghi comuni scaturenti dall’ etichettatura
nominale. Fascismo e antifascismo non significano nulla, se non la
giustificazione di una scarsa osservazione della realtà. L’antifascismo è e fa
il violento al pari di un fascismo bello e buono e lo è nella misura in cui,
impedendo il dialogo, scade nella pratica dell’etichettatura che esclude. Il
caso più emblematico è quello relativo all’Immigrazione. Qui non si tratta di
essere d’accordo con i deliri di Salvini, ma neanche con la disastrosa politica
di accoglienza adottata dall’Unione Europea. L’immigrazione è non solo un caso
umanitario, nel senso che si parla di uomini e non di bestie da mandare al
macello, a cui poi verrebbero offerti servizi regali e doni di varia natura,
come il secondo Matteo annuncia con somma stizza sul suo profilo facebook. E’
anche un problema da affrontare, e lo è soprattutto nei casi in cui questa
potrebbe configurarsi come una via preziosa per le infiltrazioni, lo è nella
misura in cui compromette il mercato del lavoro della nazione (madrepatria e
ospitante) e i costi di manodopera, indispensabile sostegno dell’economia di
mercato. Accoglienza sì, con i dovuti limiti, ma capire il problema reale e non
essere un semplice infuso di bontà e pietà perché, come scrive Robert Hughes in La cultura del piagnisteo,
“quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione,
attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene o
addirittura un attentato ai suoi <<diritti>> o supposti tali; ogni
argomento diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la
violenza vera e propria.”
C’è poi un secondo livello di discussione che abbiamo chiamato atteggiamento antifascista. E’ strettamente collegato al
primo, e che può nutrirsi di esso, ma presenta alcune variabili significative.
E’ l’atteggiamento di chi comprende quanto detto sinora e fa in modo di
staccarsi dalla logica dell’etichettatura rimanendo sempre ben attento dal
pronunciare il termine supposto: fascismo. E’ un atteggiamento inconscio,
legato sostanzialmente al pericolo che atteggiamenti autoritari, intesi come
minaccia alla libertà dell’individuo, possano realizzarsi concretamente in
forme politiche esistenti. La minaccia è sempre alle porte; difatti se c’è un
fascismo, è proprio quello del mercato, l’ideologia edonistica del consumo,
il nuovo fascismo per utilizzare delle felici
espressioni di Pasolini. Ma sarebbe meglio, onde evitare i rischi che
abbiamo sottolineato, liberarci una volta per tutte, da queste espressioni
vuote e monotone. Monotone perché vuote e dunque facilmente utilizzabili per
sollecitare l’opinione pubblica nel dibattiti televisivi e negli articoli di
giornale.
E’ il caso di parlare oggi di antifascismo? A che serve? Non è forse
meglio capire che il mondo non può essere giudicato mediante etichette? E poi,
miseria, proprio gli antifascisti scadono nel qualunquismo? C’è differenza tra
l’esaminare e analizzare le posizioni e scadere nella tifoseria, la stessa
differenza che c’è tra un “antisionista” e un “antisemita” (senza scadere nella
moda “anti”), insomma tra un osservatore lucido e un cieco etichettatore. In
fondo, come scriveva Ennio Flaiano, “In Italia i fascisti si dividono in due
categorie: i fascisti e gli antifascisti.”