martedì 7 aprile 2015

Se l'antifascismo diviene bandiera

(Di Ippolito Emanuele Pingitore – da “L’intellettuale dissidente”)
C’è un residuo ideologico che, a distanza di settanta anni dalla caduta del Fascismo storico, è duro a sconfiggersi più che la morte: l’antifascismo. Qualsiasi discussione politica e sociale che si allontani da un certo tipo di buonismo – o sentimentalismo che dir si voglia – assume il carattere di fascismo.

La questione può essere intesa su due livelli di discussione. Avremo perciò un politica antifascista e un  atteggiamento antifascista. Di fatto una politica antifascista è completamente inutile al discorso pubblico per ovvie ragioni: si può affermare che ciò distolga l’attenzione da questioni più concrete e che dunque funzioni da catalizzatore ideologico del sistema, si può affermare che una politica antifascista sia una presa di posizione ideologica che non abbia alcun legame concreto con la realtà e che non ha senso parlare di antifascismo in assenza di fascismo. Questo primo livello è quello che anima il discorso politico e pubblico, ma fascismo è una categoria talmente vaga che finisce per dire tutto e niente, per parlare del tutto e del più, senza giungere ad un senso oggettivamente condivisibile. Rientra in questo tipo di politica la discussione intorno ai diritti civili, all’immigrazione e ad ogni tematica che tiri in causa l’Altro più debole legalmente o moralmente, ma anche chi esprime posizioni che si pongono a distanza dalla concezione occidentale di democrazia. Dire di essere a favore di una immigrazione regolare assume l’etichetta del fascismo, così come dire di non essere favorevole al riconoscimento delle adozioni da parte delle coppie omosessuali. E’ fascismo il Movimento 5 Stelle, è fascista Putin. E’ fascismo. E non c’è altro ragionamento che possa deviare l’esito del discorso che, altrimenti, resterebbe chiuso. Beninteso: è del tutto legittimo che qualcuno consideri Tizio o Caio come violento, come pericolo “democratico”, posto che quella che noi intendiamo essere democrazia lo sia in termini concreti. Ma una presa di posizione comporta l’obbligo di argomentazione che, altrimenti, non si presenterebbe diversa da un insulto gratuitamente donato. Se ogni istanza non condivisa è fascista, sarebbe meglio non discutere proprio. Allora l’antifascismo si configura come una pratica dell’etichettatura che non ha bisogno di riflettere, ma di avere la meglio, guardandosi molto bene dal toccare la sostanza del discorso che invece si presenterebbe spinoso e degno di aratura intellettuale.
Al di là della retorica trita e ritrita, l’antifascismo è una categoria oppositiva che non prelude ad un risanamento, ad una sintesi, ma che, anzi, si bea tranquillamente del suo scontro di posizione. Stando ancora immersi in questa nube ideologica si corre il rischio di assumere posizioni che finiscono per allontanarsi dalla realtà e che influenzano la propria (parziale) concezione del mondo. Come se non bastasse, l’antifascismo finisce per costituire un a priori dispregiativo, atto a catalogare l’altro secondo una serie di luoghi comuni scaturenti dall’ etichettatura nominale. Fascismo e antifascismo non significano nulla, se non la giustificazione di una scarsa osservazione della realtà. L’antifascismo è e fa il violento al pari di un fascismo bello e buono e lo è nella misura in cui, impedendo il dialogo, scade nella pratica dell’etichettatura che esclude. Il caso più emblematico è quello relativo all’Immigrazione. Qui non si tratta di essere d’accordo con i deliri di Salvini, ma neanche con la disastrosa politica di accoglienza adottata dall’Unione Europea. L’immigrazione è non solo un caso umanitario, nel senso che si parla di uomini e non di bestie da mandare al macello, a cui poi verrebbero offerti servizi regali e doni di varia natura, come il secondo Matteo annuncia con somma stizza sul suo profilo facebook. E’ anche un problema da affrontare, e lo è soprattutto nei casi in cui questa potrebbe configurarsi come una via preziosa per le infiltrazioni, lo è nella misura in cui compromette il mercato del lavoro della nazione (madrepatria e ospitante) e i costi di manodopera, indispensabile sostegno dell’economia di mercato. Accoglienza sì, con i dovuti limiti, ma capire il problema reale e non essere un semplice infuso di bontà e pietà perché, come scrive Robert Hughes in La cultura del piagnisteo, “quando gli stati d’animo sono i principali referenti di un’argomentazione, attaccare una tesi diventa automaticamente un insulto a chi la sostiene o addirittura un attentato ai suoi <<diritti>> o supposti tali; ogni argomento diventa ad hominem e rasenta la molestia, se non la violenza vera e propria.”
C’è poi un secondo livello di discussione che abbiamo chiamato atteggiamento antifascista. E’ strettamente collegato al primo, e che può nutrirsi di esso, ma presenta alcune variabili significative. E’ l’atteggiamento di chi comprende quanto detto sinora e fa in modo di staccarsi dalla logica dell’etichettatura rimanendo sempre ben attento dal pronunciare il termine supposto: fascismo. E’ un atteggiamento inconscio, legato sostanzialmente al pericolo che atteggiamenti autoritari, intesi come minaccia alla libertà dell’individuo, possano realizzarsi concretamente in forme politiche esistenti. La minaccia è sempre alle porte; difatti se c’è un fascismo, è proprio quello del mercato, l’ideologia edonistica del consumo, il nuovo fascismo per utilizzare delle felici espressioni di Pasolini.  Ma sarebbe meglio, onde evitare i rischi che abbiamo sottolineato, liberarci una volta per tutte, da queste espressioni vuote e monotone. Monotone perché vuote e dunque facilmente utilizzabili per sollecitare l’opinione pubblica nel dibattiti televisivi e negli articoli di giornale.

E’ il caso di parlare oggi di antifascismo? A che serve? Non è forse meglio capire che il mondo non può essere giudicato mediante etichette? E poi, miseria, proprio gli antifascisti scadono nel qualunquismo? C’è differenza tra l’esaminare e analizzare le posizioni e scadere nella tifoseria, la stessa differenza che c’è tra un “antisionista” e un “antisemita” (senza scadere nella moda “anti”), insomma tra un osservatore lucido e un cieco etichettatore. In fondo, come scriveva Ennio Flaiano, “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti.”