(Di Alex Angelo D’Addio – da “L’intellettuale dissidente”)
“Conosci tu il Paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame
splendono arance d’oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro. Tranquillo è il
mirto, sereno l’alloro”. Il viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe è
suscettibile di un parallelismo biblico. Senza il rischio di scadere nella
blasfemia.
La letteraria esperienza italiana dello scrittore tedesco sul crepuscolo
del 1700 è imparentata alla lontana con la conversione spirituale di San Paolo
verso Damasco. In effetti, il soggiorno nei nostrani confini – in piena
dominazione napoleonica – funse da volano per la consacrazione culturale del
poeta teutonico, alla continua ricerca di un’identità che lo riuscisse ad
elevare nella spontaneità di un dettaglio, nella semplicità di un istante,
nell’immediatezza di un frangente. Nell’Italia dei Cento Campanili e delle
tradizioni fucine di cultura, Goethe scovò l’imponente taratura della rustica
quotidianità. L’affacciarsi da un’inferriata per lasciarsi ammaliare dal
chiacchiericcio della Roma del Settecento. O il trovare ristoro nella
rifocillante quiete campestre, nella quale senso del dovere e spiritualità si
fondevano nell’arte ultracentenaria dell’agricoltura. In queste ed innumerevoli
narrazioni, l’ordinarietà di una circostanza giornaliera muta in unicità
assolutizzata, estraniandosi dai richiami di un Mondo che gradualmente
approdava verso sponde di desolazione valoriale ed intellettuale. Una
singolarità che soltanto l’Italia può regalare nell’inconscio torpore di un
sonno forzato. Un sonno agognato da quell’intellighenzia bigotta e faccendiera
di una politica a sua volta al servaggio dei potentati economico-finanziari,
che nella logica globalizzata scorge l’opportunità di appiattire ogni sorta di
culturalismo tradizionale ed identitario.
Goethe è, dunque, scongiurato e il consueto sermone, ideologizzato ed
insipido, in sala statunitense sovrasta indebitamente i benamati e venerandi
classicismi. Sotto l’egida di una tesi dalla tenuta contenutistica improbabile,
la solita rivista informatica d’oltreoceano occupa i suoi spazi editoriali
nell’auspicio di solleticare l’interesse del lobotomizzato di turno. Sulla base
di questa premessa, la redazione di BuzzFeed ha ritenuto necessario sfornare un
approfondimento che ha il retrogusto della provocazione: 39 ragioni a sostegno
della conclusione che l’Italia sia il Paese peggiore dell’intero globo.
Non
vanno biasimati, i sornioni corrispondenti della testata americana: è attività
assai ardua apprezzare con occhio di riguardo le parvenze divine di una terra
che non sia la propria. Da fuori, è incredibilmente complesso accettare la
magnificenza della paesaggistica dell’entroterra laziale, toscano,
emiliano-romagnolo; l’inarrivabile storicità culturale di Roma, di Firenze, di
Venezia, all’ombra del Cupolone, degli Uffizi e di San Marco; l’esclusività
della gastronomia meridionale, tra le leccornie partenopee, la casereccia pasta
alimentare pugliese e la rosticceria siciliana; il valore secolare ed
inestinguibile delle tradizioni locali, fra celebrazioni patronali, devozioni
maniacali, inciuci di borgata e corna di contrada. In estrema sintesi, è
difficile per una civiltà cresciuta a pasta e ketchup ed educata all’idolatria
al dollaro, assaporare genuinamente la concretizzazione degli scritti
settecenteschi di Goethe.
Quindi, “se le persone vi dicono che l’Italia è bella, non credetegli”:
è semplicemente una meraviglia oscillante tra la gloria della sua arcaicità e
l’indisponente mentalità di un popolo ingrato ed ignorante. “Non ti trasmette
nulla”, esclusa una spropositata percezione del particolare, volta
costantemente ad incrementare sapienza e memoria. “L’Italia non ha storia”, per
chi identifica la storia in una finale di Super Bowl o nell’ultimo scorso
stagionale di NBA. Una cosa è certa: “non visitarla mai”, perché rischieresti
di non ritenere ammissibile nessun’altra bellezza. Oltre che d’invaghirtene:
d’altronde, questo insegna Goethe.”