venerdì 17 aprile 2015

Le radici dell'Europa

(Di Adriano Scianca – da “Centro studi La Runa”)

L’attuale dibattito sulle radici spirituali dell’Europa ha assunto, inevitabilmente, i tratti della farsa. Vedere il partito laico, massonico, tardo-illuminista scontrarsi in singolar tenzone con la fazione neoguelfa, clericale e reazionaria è uno spettacolo paradossale cui avremmo volentieri voluto evitare di assistere. Di certo il processo di presa di coscienza di una nuova identità continentale da parte degli europei non ne ha guadagnato. La confusione, anzi, regna sovrana ed è sicuro che gli esponenti dei due schieramenti sopra citati difficilmente potranno soddisfare il bisogno di chiarezza che si avverte a riguardo. Il saggio di Giovanni Reale sulle Radici culturali e spirituali dell’Europa ha esattamente la pretesa di mettere ordine nel dibattito in corso. “Una comunità – dice Reale – ha radici culturali e spirituali che trascendono i principi razionali puramente astratti e la dimensione delle leggi giuridiche ed economiche. […] La ‘casa europea’ non può dunque essere costruita in maniera adeguata se non viene costruita nell’anima stessa dell’‘uomo europeo’”. Parole sacrosante. Resta però il problema di uscire dalla genericità ed affrontare in concreto la questione. Questione di non facile soluzione, a cui l’autore sa dare risposte esaurienti solo in modo molto parziale. Vediamo perché.


Le radici greche
Le radici cui il titolo del libro fa riferimento sono per Reale sostanzialmente tre: la filosofia greca, il Cristianesimo e la “rivoluzione scientifica”. Partiamo dalla prima. La visione che Reale ha del mondo greco è fortemente selettiva, almeno da tre punti di vista. Innanzitutto, Reale evita accuratamente di considerare la civiltà greca come un momento – seppur particolarmente luminoso – della più vasta avventura storica indoeuropea. Questo, probabilmente, per una sorta di tributo al “politicamente corretto”. Il carattere per nulla innocente degli studi sugli indoeuropei è infatti noto e l’isteria che si scatena a riguardo da parte dei corifei del pensiero dominante ogniqualvolta si parli dell’argomento in termini non solo linguistici ma anche etnici lo testimonia (1). In secondo luogo, il pensiero greco di cui ci parla Reale si riduce sostanzialmente a Platone ed Aristotele. Non è poco, si dirà. Vero. Ma non è nemmeno tutto. Fino a prova contraria la Grecia è anche Eschilo e Sofocle, Eraclito e Pitagora, i misteri di Eleusi ed i culti dionisiaci. E, soprattutto, la Grecia è Omero, il vero padre fondatore della cultura europea. Sorvolare su tutto ciò come se si trattasse di figure di una grecità arcaica ed inautentica, ancora impastata di superstizione e oscurantismo pre-filosofico, ci sembra sinceramente assurdo. In terzo luogo, Reale dimentica di far notare come negli stessiPlatone ed Aristotele da lui abbondantemente citati siano presenti argomenti assolutamente irriducibili all’ethos moderno, liberale ed individualista. Si pensi solo all’esegesi del pensiero platonico operata da studiosi vicini alla rivoluzione nazionale tedesca come H.F.K. Günther, J. Bannes o K. Gabler, o, nel dopoguerra, da Adriano Romualdi e Franco Freda. Ma si pensi anche all’uso che del pensiero aristotelico ha fatto Alasdair MacIntyre, rivalutando in chiave anti-liberale, anti-individualistica ed anti-moderna la concezione dell’“animale politico” in grado di completare se stesso solo all’interno della comunità.

Le radici cristiane
Se la Grecia è – agli occhi di Reale – la “luce della ragione” destinata ad illuminare il nostro cammino ancora oggi, il Cristianesimo rappresenterebbe invece la scoperta del valore della singola persona umana. Che questa “scoperta della persona” non abbia nulla a che fare con la nascita dell’individualismo moderno è cosa di cui Reale è certissimo. Noi lo siamo un po’ meno. Ma non è questo ciò che importa, quanto piuttosto il presunto carattere imprescindibile della “radice (giudaico)cristiana per l’Europa attuale. Andrebbe innanzitutto chiarito il vero motivo dell’insistenza con cui certi ambienti reclamano la sottolineatura delle radici bibliche della spiritualità europea, motivo che non è per nulla di esclusiva natura culturale ma che anzi trova origine nella volontà di assegnare d’ufficio la nostra civiltà al blocco occidentale guidato dagli USA (che con la Bibbia hanno un ben noto rapporto morboso). E, non ultime, andrebbero segnalate le mire neo-egemoniche del Vaticano (2). Ma anche limitandoci ad affrontare la questione dal punto di vista culturale, crediamo si possa dubitare del fatto che “il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe” – per riprendere l’espressione di Pascal citata nel volume – possa essere l’unico Dio possibile per gli europei, per l’elementare ragione che europei Abramo, Isacco e Giacobbe non lo erano affatto. Né lo erano Gesù di Nazareth ed i suoi dodici apostoli. Europeo, il Cristianesimo, ha forse scelto di esserlo “per vocazione”, rivolgendosi esplicitamente agli abitanti del continente? Nessuno potrebbe affermare una simile idiozia, essendo il messaggio del Cristo assolutamente universalista, rivolto sempre e comunque all’uomo tout court, al di là di ogni appartenenza. Sotto il segno della croce si è forse data un’unità continentale? Difficile dirlo, visto che abbiamo a che fare con una religione che ha subito molteplici divisioni interne consumate non senza spargimenti di sangue. Ancora oggi, dall’Irlanda ai Balcani, il Cristianesimo sembra essere un fattore di divisione molto più che di coesione. Detto questo, nessuno può ovviamente pensare di considerare due millenni di Cristianesimo una parentesi trascurabile su cui poter sorvolare e “tornare alle origini” come se niente fosse. Sarebbe a dir poco folle. Il Cristianesimo ha profondamente influenzato la storia e la cultura d’Europa, nessuno può negarlo. E tuttavia tale ammissione non esaurisce il problema: unareligione può essere presente nell’albero genealogico di un popolo come radice o come fronda; può segnarne la storia come fonte di salvezza o come origine della decadenza; può intaccare solo la superficie o cambiarlo in profondità. La verità è che esiste una forma mentis specificatamente europea che precede e attraversa il Cristianesimo, pur senza disdegnare di assumere quest’ultimo come veicolo per esprimere una mentalità che con esso poco ha a che fare. Le cattedrali gotiche, ad esempio, sono per prima cosa espressioni di una spiritualità tipicamente europea e solo secondariamente templi di una religione nata tra le dune della Palestina. È per questo che in esse ci sentiamo a casa anche senza aver in particolare simpatia il racconto biblico. Esiste tutta unaWeltanschauung che è nata prima del Cristianesimo, lo ha accompagnato intrecciandosi a volte con esso e probabilmente ne assisterà alla fine senza cessare essa stessa di essere vitale. Su tutto questo, però, torneremo dopo. Ora ci interessa parlare della terza radice, la cosiddetta “rivoluzione scientifica”.

La rivoluzione scientifica
Per Reale la mentalità scientifica è una creazione specifica della cultura europea. La medicina, l’astronomia, la matematica nascono, in quanto scienze, dall’approccio speculativo specificatamente greco. Questa innata predisposizione speculativa troverà poi il suo apogeo nella rivoluzione scientifica seicentesca. Ora, al riguardo bisogna spendere alcune parole su alcuni approcci in voga dalle nostre parti. Sappiamo bene che troppo spesso un mal compreso “tradizionalismo” bigotto e reazionario ha voluto condannare la scienza in sé come un’aberrazione tipicamente moderna. Sfortunatamente un simile atteggiamento ha a volte contagiato anche chi ha preteso di essere l’erede di quelle rivoluzioni nazionali che annoverarono tra i propri collaboratori un Guglielmo Marconi o un Werner Von Braun. Rivoluzioni che mai si sognarono di predicare un luddismo neo-primitivista ma che seppero piuttosto mostrare uno spirito assolutamente spregiudicato ed innovativo che all’epoca seppe sorprendere il mondo. Se oltre al richiamo di tali illustri precedenti si considerano le nuove frontiere dell’epistemologia – decisamente indirizzata verso la fondazione di un paradigma olistico, organicista e non lineare (3) – nonché il carattere assolutamente “scorretto” di molte recenti scoperte (4), non si capisce francamente in virtù di quale logica “rivoluzionaria” o “fascista” si debba rifiutare in blocco l’intera scienza moderna. Ovviamente non sfugge a chi scrive il rovescio della medaglia, ovvero il carattere brutalmente disumano di ogni sperimentazione che non trovi altro limite se non le leggi del mercato ed altro beneficiario se non la tirannica volontà di dominio delle oligarchie antipopolari oggi trionfanti. Ma, appunto, non è la scienza in quanto tale che va condannata, quanto piuttosto la sua sottomissione a meccanismi impersonali tendenti alla riduzione della diversità ed alla mercificazione del vivente. Qualcosa di simile lo ammette anche Reale nella sua condanna dello “scientismo”, che nel volume è considerato una specie di irrigidimento dogmatico dello spirito scientifico tendente a dominare l’intera esistenza umana. Bene. Anzi, benino. Perché la critica dell’autore risente clamorosamente degli influssi del pensiero debole oggi in voga. Per dominare i processi in atto e le nuove frontiere delle biotecnologie, però, serve esattamente il contrario: ovvero un pensiero forte, capace di conciliare l’innovazione tecnologica con il radicamento, l’equilibrio ecologico, il benessere sociale e la continuità delle tradizioni, esattamente come fecero le rivoluzioni nazionali di cui si diceva.

Cercasi un progetto
È un progetto di lunga durata, una Weltanschauung globale, una visione d’insieme onnicomprensiva che oggi manca. Ciò che ci serve è un’idea di noi stessi, del nostro futuro, una volontà di decidere chi vogliamo essere, dove vogliamo andare, quale civiltà vogliamo creare. Tutto questo non ce lo potranno dare né i mercanti né i burocrati. Reale lo sa bene, ma al tempo stesso è troppo prigioniero del pensiero dominante per indicarci una soluzione valida per uscire dall’impasse. Che la perdita di centralità esistenziale possa essere superata grazie ad una semplice “cura dell’anima” declinata nel senso della predica moralistica alla Erich Fromm (guardare non l’avere ma l’essere, il mondo dello spirito e non quello della materia etc) è quantomeno dubbio. Molto più spietata di quanto Reale sembra pensare dovrà essere l’azione su stessi per chi voglia tornare a respirare oltre la cappa soffocante dell’alienazione moderna. E molto più concreta, pragmatica, radicata nel tessuto sociale dovrà essere l’azione. Senza una precisa prassi (meta)politica volta al superamento dell’attuale “civiltà” e degli attuali “valori” a ben poco serviranno i vaghi lamenti piagnucolosi. Reale non comprende che le vecchie tavole della legge sono irrimediabilmente andate distrutte e che l’unica speranza per il domani è avere l’audacia di scriverne di nuove. Tutto ciò, ovviamente, all’insegna di una concezione sferica della storia in cui è il più lontano passato ad ispirare l’avvenire. È per questo che è necessario fare ricorso alle nostre più autentiche radici. Ecco, quindi, che si è giunti all’essenziale, ovvero alla domanda “che cosa vuol dire essere europei?”.

La forma mentis europea
Europea è la concezione aristocratica della persona umana, l’etica fondata sull’onore e sulla fedeltà (e non sul “peccato”), l’atteggiamento eroico di fronte alle sfide dell’esistenza, l’esaltazione della bellezza, del corpo, della forza; europeo è il “dir Sì alla vita” (Nietzsche), lo spirito entusiasticamente portato alla scoperta, all’avventura, alla conquista, la valorizzazione del radicamento e del senso della comunità. Lo spirito europeo è “radicato e disinstallato”, come amava dire Guillaume Faye ai tempi in cui ancora non era stato folgorato sulla via di Lepanto. Radicato poiché sempre legato ad una terra, ad un popolo, ad una tradizione. Disinstallato perché portato a pro-gettarsi sempre nuovamente nella storia verso nuovi traguardi. Concepire la propria tradizione in modo creativo: ecco cosa significa essere europei. Dal punto più specificatamente filosofico-religioso, Sigrid Hunke parlava di una “vera religione dell’Europa” riferendosi alla tendenza a rifiutare il dualismo tra Creatore e creatura, tra mondo vero e mondo falso. La Hunke ricostruiva la storia del pensiero europeo ricercando in esso i tratti di questo mentalità originaria, trovandola in Pelagio, Francesco d’Assisi, Meister Eckhart, Cusano, Pico della Mirandola, Paracelo, Giordano Bruno, Jakob Böhme, Leonardo da Vinci, Goethe, Herder, Schleiermacher, Hölderlin, Fichte, Nietzsche, Rilke, Hesse, Saint-Exupery, Heidegger, Luois Rougier. Filosofi, teologi, scrittori che in alcuni casi hanno operato anche all’interno della Chiesa (seppur – cosa significativa – venendo in genere osteggiati più o meno apertamente) ma che nondimeno, per ciò che hanno espresso nei loro testi, risultano innanzitutto come pensatori europei. Ma si pensi anche a Jean Giono, a Drieu la Rochelle, a D’Annunzio, a D.H. Lawrence, a Knut Hamsun, a Stefan George, alla Yourcenar, a Tolkien. Tutti cantori di miti, di suggestioni, di sensibilità tipicamente “nostre”, originali ed originarie. C’è infine un ulteriore mito del nostro passato remoto che vale la pena di ricordare per la sua incredibile attualità rivoluzionaria: parliamo del mito dell’Imperium. Imperium: un’idea affilata come la lama di una spada capace di tagliare il nodo di Gordio insolubile di questa modernità morente che si ripiega narcisisticamente su se stessa. È da questa fonte che possiamo attingere nuova linfa per una rigenerazione politica e spirituale, è per questo progetto che dobbiamo lottare. Per un’Europa di nuovo padrona del suo futuro, per l’Impero prossimo venturo.

Note
[1] Si noti bene: prima della scoperta della parentela storica delle lingue indoeuropee ad opera dei Romantici, la “lingua originaria dell’umanità” era considerata… l’ebraico, ovvero la “lingua della Rivelazione”. I filologi romantici posero quindi la prima base della coscienza identitaria europea. Non sarà inutile ricordare la tesi cara a molti storici secondo la quale proprio nel Romanticismo si trova la prima origine culturale del movimento poi destinato ad irrompere nella storia con le rivoluzioni fasciste del Novecento.
[2] Cfr. Alain de Benoist, La « nuova evangelizzazione » dell’Europa. La strategia di Giovanni Paolo II, Arianna Editrice, Casalecchio 2002.
[3] Penso, tanto per fare qualche nome, alle riflessioni di Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche (riflessioni che mettono in crisi il modello lineare del progresso scientifico), alle affinità notate da Fritjof Capra fra sapienza tradizionale e fisica moderna, o alle tesi di Heisemberg sulle implicazioni filosofiche della fisica quantistica.
[4] Vedi, ad esempio, Michael J. Bamshad e Steve E. Olson, Esistono le razze?, in Le Scienze, Gennaio 2004, articolo che, nonostante il titolo “prudente”, dimostra come sia possibile utilizzare gli strumenti della genetica per suddividere grandi gruppi di popolazioni in base alla loro area di origine geografica. In pratica, dimostra come la risposta all’interrogativo posto dal titolo sia sicuramente affermativa.

Tratto da Orion numero 243, dicembre 2004.