venerdì 10 aprile 2015

Verso la fine del secolo americano

(Di Nicola Spanu – da “L’intellettuale dissidente”)
La sconfitta dell’Unione Sovietica nella guerra fredda alla fine degli anni ottanta sembrava aver segnato il definitivo trionfo degli Stati Uniti quale unica potenza geopolitica mondiale. Il parlamentarismo rappresentativo statunitense ed il modo di produzione capitalistico ad esso connesso, i quali avevano trionfato contro il fascismo ed il suo sistema corporativo (in cui lo Stato si poneva come intermediario nella lotta di classe tra lavoratori e detentori del capitale), risultavano ora vincitori anche delle democrazie popolari e dell’organizzazione socialista dell’economia.

Ci fu anche chi, come il politologo Francis Fukuyama, parlò esplicitamente di “fine della storia”, nel senso che lo sviluppo storico, fino ad allora segnato da conflitti tra visioni alternative del mondo, aveva raggiunto la sua fine ed una sola Weltanschauung, quella americana, si presentava ora come modello universale da imitare.
Oggi però gli Stati Uniti mostrano espliciti segnali di crisi, sia all’interno dei loro confini – dove il legame perverso tra il legislatore pubblico, i media e le grandi multinazionali, sembra aver minato la fiducia degli elettori americani nell’imparzialità e trasparenza dei loro rappresentanti-, sia all’esterno – dove nuovi attori stanno salendo alla ribalta dello scenario geopolitico mondiale, come la Cina e la Russia. Ma prima di discutere la crisi del predominio globale statunitense, analizziamo brevemente i fattori che lo hanno determinato a partire dal crollo dell’Unione Sovietica e che si riducono fondamentalmente a cinque:
1)    L’apertura dei paesi dell’ex blocco socialista e della Cina all’economia di mercato ed il loro ingresso all’interno degli organismi economici internazionali, come per es. il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in cui gli Stati Uniti avevano ed hanno un ruolo preponderante.
2)    Lo sviluppo dei sistemi informatici e telematici avente negli USA, e specialmente nella cosìdetta “Silicon Valley”, il suo centro propulsore, il quale favorì moltissimo il processo di globalizzazione facilitando le comunicazioni tra paesi fino ad allora distanti sia politicamente che culturalmente.
3)    Lo spostamento del fulcro dell’economia americana sul settore dei servizi, particolarmente quelli finanziari e della cosiddette “tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (in inglese: information&communication technology [ICT]), unitamente alla contemporanea delocalizzazione nei paesi dell’ex blocco socialista ed in Cina di gran parte delle attività produttive legate all’economia reale, alla luce dei bassi costi della manodopera che quei paesi erano (ed in parte sono ancora) in grado di garantire.
4)    L’affermazione di un modo di produzione capitalistico fondamentalmente diverso da quello in vigore fino a quel momento, il quale si contraddistingueva, da un lato, per politiche di stimolo all’economia attuate dallo Stato grazie a massicci investimenti pubblici e, dall’altro, per la raccolta del risparmio privato da parte delle banche al fine di finanziare attività imprenditoriali connesse con la produzione in loco di beni e servizi.
Al contrario, la liberazione di immense risorse economiche grazie alla delocalizzazione della produzione in paesi a basso costo di manodopera andò a finanziare attività di tipo speculativo legate al mercato azionario, obbligazionario e delle materie prime, e lo sviluppo di prodotti finanziari come i “futures” ed i “derivati”, il cui livello di complessità e, conseguentemente, di rischiosità, fu grandemente accresciuto dall’utilizzo, da parte delle borse di tutto il mondo, di sistemi informatici e telematici sempre più avanzati. Gli Stati Uniti, grazie all’importanza assunta da Wall Street quale fulcro dell’economia mondiale, si proposero come leader indiscussi di questo nuovo tipo di capitalismo, di cui nella sua fase iniziale recepirono i benefici.
5)    A livello politico-economico, la salita al potere di Ronald Reagan negli Stati Uniti, di Margaret Thachter in Gran Bretagna e, nell’Europa continentale, la scelta del modello economico neoliberista di stampo anglosassone quale fondamento ideologico dei trattati di integrazione europea, costituirono gli assi portanti della rivincita del modello liberista non solo su quello socialista, oramai in crisi irreversibile, ma anche su quello socialdemocratico, che fino ad allora era stato predominante nei paesi dell’Europa occidentale, permettendo, pur con tutti i suoi limiti (come per es. il grande potere assunto dalla classe politica nella gestione dell’economia e la sua conseguente esposizione a fenomeni di tipo corruttivo), livelli di benessere e di tutela sociale sconosciuti fino a quel momento, ma che veniva ora reputato da economisti e politici, sopratutto americani e britannici, un residuo della guerra fredda di cui liberarsi, a causa, da un lato, della sua supposta esosità per le finanze pubbliche, dall’altro, della sua presunta azione di freno al libero sviluppo degli agenti economici, oppressi da una regolamentazione e tassazione eccessiva.

L’abolizione del Glass-Steagall Act da parte della presidenza Clinton il 12 novembre 1999 – il quale separava nettamente le banche tradizionali (la cui funzione è raccogliere il risparmio privato e reinvestirlo nell’economia reale tramite l’erogazione di prestiti a famiglie e imprese) da quelle di investimento, focalizzate, tra l’altro, su attività economiche di tipo speculativo (al fine di evitare che perdite incorse dalla seconde si riflettessero sulla prime) -, rappresenta una delle manifestazioni più significative della rivincita neoliberista di cui i governi statunitensi successivi alla presidenza Reagan, fossero essi repubblicani o democratici, si fecero alfieri. 
Alla deregolamentazione della finanza speculativa, la quale divenne il vero dominus dell’economia americana e, di conseguenza, di quella mondiale, si accompagnarono poi, sia in America che in Gran Bretagna ed in Europa occidentale, i seguenti fenomeni: la concentrazione in mani private di attività economiche fino ad allora svolte dallo Stato tramite aziende pubbliche; la diminuzione della tassazione per i più ricchi; la riduzione, se non sospensione, degli investimenti pubblici, al fine conclamato di ridurre la spesa pubblica ed il conseguente indebitamento dello Stato nei confronti dei mercati finanziari internazionali; la riduzione dei salari dei lavoratori (il cui potere d’acquisto, sia in Europa che negli Stati Uniti, prese una curva discendente che, dopo vent’anni, sembra non aver ancora iniziato a cambiare direzione); la precarizzazione e frammentazione del lavoro dipendente al fine di ridurne il costo per il datore di lavoro, ora libero di delocalizzare l’attività produttiva qualora i lavoratori non accettassero (e a volte nonostante accettassero) una recisa compressione salariale ed un ridimensionamento del potere contrattuale dei loro sindacati di rappresentanza, il quale venne o considerevolmente ridotto (Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia) o sostanzialmente asservito alle scelte del padronato (Germania).