(Di Nicola Spanu – da “L’intellettuale dissidente”)
La sconfitta dell’Unione Sovietica nella guerra fredda alla fine degli
anni ottanta sembrava aver segnato il definitivo trionfo degli Stati Uniti
quale unica potenza geopolitica mondiale. Il parlamentarismo rappresentativo
statunitense ed il modo di produzione capitalistico ad esso connesso, i quali
avevano trionfato contro il fascismo ed il suo sistema corporativo (in cui lo
Stato si poneva come intermediario nella lotta di classe tra lavoratori e
detentori del capitale), risultavano ora vincitori anche delle democrazie
popolari e dell’organizzazione socialista dell’economia.
Ci fu anche chi, come il politologo Francis Fukuyama, parlò
esplicitamente di “fine della storia”, nel senso che lo sviluppo storico, fino
ad allora segnato da conflitti tra visioni alternative del mondo, aveva
raggiunto la sua fine ed una sola Weltanschauung,
quella americana, si presentava ora come modello universale da imitare.
Oggi però gli Stati Uniti mostrano espliciti segnali di crisi, sia
all’interno dei loro confini – dove il legame perverso tra il legislatore
pubblico, i media e le grandi multinazionali, sembra aver minato la fiducia
degli elettori americani nell’imparzialità e trasparenza dei loro
rappresentanti-, sia all’esterno – dove nuovi attori stanno salendo alla
ribalta dello scenario geopolitico mondiale, come la Cina e la Russia. Ma prima
di discutere la crisi del predominio globale statunitense, analizziamo
brevemente i fattori che lo hanno determinato a partire dal crollo dell’Unione
Sovietica e che si riducono fondamentalmente a cinque:
1) L’apertura dei paesi dell’ex blocco socialista e
della Cina all’economia di mercato ed il loro ingresso all’interno degli
organismi economici internazionali, come per es. il Fondo Monetario
Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in cui gli Stati
Uniti avevano ed hanno un ruolo preponderante.
2) Lo sviluppo dei sistemi informatici e telematici
avente negli USA, e specialmente nella cosìdetta “Silicon Valley”, il suo
centro propulsore, il quale favorì moltissimo il processo di globalizzazione
facilitando le comunicazioni tra paesi fino ad allora distanti sia
politicamente che culturalmente.
3) Lo spostamento del fulcro dell’economia americana
sul settore dei servizi, particolarmente quelli finanziari e della cosiddette
“tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (in inglese:
information&communication technology [ICT]), unitamente alla contemporanea
delocalizzazione nei paesi dell’ex blocco socialista ed in Cina di gran parte
delle attività produttive legate all’economia reale, alla luce dei bassi costi
della manodopera che quei paesi erano (ed in parte sono ancora) in grado di
garantire.
4) L’affermazione di un modo di produzione
capitalistico fondamentalmente diverso da quello in vigore fino a quel momento,
il quale si contraddistingueva, da un lato, per politiche di stimolo
all’economia attuate dallo Stato grazie a massicci investimenti pubblici e,
dall’altro, per la raccolta del risparmio privato da parte delle banche al fine
di finanziare attività imprenditoriali connesse con la produzione in loco di
beni e servizi.
Al contrario, la liberazione di immense risorse economiche grazie alla
delocalizzazione della produzione in paesi a basso costo di manodopera andò a
finanziare attività di tipo speculativo legate al mercato azionario,
obbligazionario e delle materie prime, e lo sviluppo di prodotti finanziari
come i “futures” ed i “derivati”, il cui livello di complessità e,
conseguentemente, di rischiosità, fu grandemente accresciuto dall’utilizzo, da
parte delle borse di tutto il mondo, di sistemi informatici e telematici sempre
più avanzati. Gli Stati Uniti, grazie all’importanza assunta da Wall Street
quale fulcro dell’economia mondiale, si proposero come leader indiscussi di
questo nuovo tipo di capitalismo, di cui nella sua fase iniziale recepirono i
benefici.
5) A livello politico-economico, la salita al potere
di Ronald Reagan negli Stati Uniti, di Margaret Thachter in Gran Bretagna e,
nell’Europa continentale, la scelta del modello economico neoliberista di
stampo anglosassone quale fondamento ideologico dei trattati di integrazione
europea, costituirono gli assi portanti della rivincita del modello liberista
non solo su quello socialista, oramai in crisi irreversibile, ma anche su
quello socialdemocratico, che fino ad allora era stato predominante nei paesi
dell’Europa occidentale, permettendo, pur con tutti i suoi limiti (come per es.
il grande potere assunto dalla classe politica nella gestione dell’economia e
la sua conseguente esposizione a fenomeni di tipo corruttivo), livelli di
benessere e di tutela sociale sconosciuti fino a quel momento, ma che veniva
ora reputato da economisti e politici, sopratutto americani e britannici, un
residuo della guerra fredda di cui liberarsi, a causa, da un lato, della sua
supposta esosità per le finanze pubbliche, dall’altro, della sua presunta
azione di freno al libero sviluppo degli agenti economici, oppressi da una
regolamentazione e tassazione eccessiva.
L’abolizione del Glass-Steagall Act da parte della presidenza Clinton il
12 novembre 1999 – il quale separava nettamente le banche tradizionali (la cui
funzione è raccogliere il risparmio privato e reinvestirlo nell’economia reale
tramite l’erogazione di prestiti a famiglie e imprese) da quelle di
investimento, focalizzate, tra l’altro, su attività economiche di tipo
speculativo (al fine di evitare che perdite incorse dalla seconde si
riflettessero sulla prime) -, rappresenta una delle manifestazioni più
significative della rivincita neoliberista di cui i governi statunitensi
successivi alla presidenza Reagan, fossero essi repubblicani o democratici, si
fecero alfieri.
Alla deregolamentazione della finanza speculativa, la quale
divenne il vero dominus dell’economia americana e, di
conseguenza, di quella mondiale, si accompagnarono poi, sia in America che in
Gran Bretagna ed in Europa occidentale, i seguenti fenomeni: la concentrazione
in mani private di attività economiche fino ad allora svolte dallo Stato
tramite aziende pubbliche; la diminuzione della tassazione per i più ricchi; la
riduzione, se non sospensione, degli investimenti pubblici, al fine conclamato
di ridurre la spesa pubblica ed il conseguente indebitamento dello Stato nei
confronti dei mercati finanziari internazionali; la riduzione dei salari dei
lavoratori (il cui potere d’acquisto, sia in Europa che negli Stati Uniti,
prese una curva discendente che, dopo vent’anni, sembra non aver ancora
iniziato a cambiare direzione); la precarizzazione e frammentazione del lavoro
dipendente al fine di ridurne il costo per il datore di lavoro, ora libero di
delocalizzare l’attività produttiva qualora i lavoratori non accettassero (e a
volte nonostante accettassero) una recisa compressione salariale ed un
ridimensionamento del potere contrattuale dei loro sindacati di rappresentanza,
il quale venne o considerevolmente ridotto (Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia)
o sostanzialmente asservito alle scelte del padronato (Germania).