(Di
Lorenzo Vitelli – da “L’intellettuale dissidente”)
Chi
crede che la filosofia sia una scienza morta ha solo perso di vista il luogo in
cui la si teorizza e la si pratica. Certo questo luogo non sono le accademie e
le aule universitarie, dove si pensa, si specula, ma dove il nesso con la
prassi è pressoché superfluo. E’ masturbazione intellettuale, non pratica
filosofica: niente di più lontano dalle aspirazioni degli antichi filosofi
greci. Eppure la filosofia esiste ancora, è viva, ci parla – stavolta non più
dai libri di testo o dalle bocche dei sapienti, ma dai cartelloni pubblicitari
che tatuano le città, dai banner online, dalle televisioni: gli oggetti e le
cose oramai sono i soli che hanno qualcosa da dire, sono gli unici a
proferire un discorso morale. Parlano di noi, del giusto, dello sbagliato, di ciò
che è vero e ciò che è falso. Le pubblicità di una lavastoviglie o di una
macchina hanno aspirazioni moralizzanti.
Questo
per dire che il capitalismo non è solo una forma economica, ma “esistono –
dice De Benoist – un’antropologia del capitalismo, un tipo d’uomo capitalista,
un immaginario capitalista, una civiltà capitalista, un modo di vivere
capitalista”. Ne consegue che una filosofia del capitalismo è valida e più
prolifica che mai. A insegnarla sono i guru del marketing, gli esperti
pubblicitari, gli spin-doctor; non
solo vendono un prodotto, ma addestrano anche a consumarlo: creano modelli e
insegnano una gestualità, un portamento, una mimica, un insieme di
comportamenti e di pratiche condivise che finiscono per vomitare un
enunciato morale.
Questa
rinnovata filosofia di vita, o lifestyle per intenderci – che tramite le cose
ha già preso possesso dei corpi – ora si ritaglia due momenti spazio-temporali.
Alla pari del modo di produzione neo-capitalistico, che è oppressivo in luogo
di produzione, e permissivo in luogo di consumo, anche l’esistenza viene
incanalata in questa dualità. Il motto “work hard, play hard” ne incarna una
sintesi perfetta. Non è solo il titolo di un brano musicale, ma un sistema
teorico e pratico di organizzazione e scansione del tempo. Più ti
sottometti ai ritmi di produzione, alla flessibilità, al part-time, alla
parcellizzazione del lavoro, più ti sacrifichi, più rinunci ad una vita
dignitosa, più sei un automa durante la settimana, più accetti tacitamente le
regole del gioco decise a monte: più ti potrai sballare durante il weekend, più
ti potrai svagare (per due giorni!), più potrai godere, più potrai profittare
della tua “confortevole, levigata, ragionata, democratica non-libertà”
(Marcuse).
Cinque
giorni settimanali mortificati in nome di una pseudo ribellione
(quella dello sballo oltre ogni limite) non solo auspicata,
incentivata, ma finalmente imposta dall’alto – perché non reca fastidio e
muove capitali. Lo sballo è limitato e circoscritto in un arco di tempo ben
definito. Tutto è impostato a scadenze fisse, gestito dal timbro oppressivo dei
modi di produzione. “Thank God, it’s Friday!”: due giorni bastano a rifocillare
quella psiche che per 120 ore, “lavorando sodo”, si è sottratta al principio di
piacere ed ora ci rientra a gamba tesa. Il Weekend siamo rivoluzionari, in
settimana proletari.