lunedì 29 febbraio 2016

L'utero in affitto è pura narrazione padronale



di Federico Callegaro


Se l'utero in affitto non vi spaventa è perché ragionate mettendovi nei panni di chi si affida a questa pratica per avere un bambino e non riuscite a identificarvi con chi l'utero lo affitta. Per disponibilità economica, per affinità geografiche e culturali siete più simili a chi commissiona il neonato rispetto a chi lo tiene in grembo. Essere empatici con chi è simile a te è più facile, perciò quando si ragiona intorno a questo spinoso argomento le domande che vi fate sono: "Mi prenderei cura della mamma surrogata?", "sarei rispettoso della sua condizione?", "riuscirei a farla diventare parte della mia famiglia per disinnescare quel retrogusto da transazione finanziaria che oggettivamente aleggia intorno a tutta la vicenda?". Tutti quesiti leciti, domande che rappresentano una reale intenzione di gestire in modo "umano" una situazione molto particolare. Il problema è che partono solo dal punto di osservazione di chi commissiona il figlio e non toccano minimamente la prospettiva della "portatrice", la donna che affitta il suo utero.

Quello che dovrebbe far paura è il messaggio (l'ennesimo) di come chi ha disponibilità economica possa permettersi tutto. La narrazione padronale che la circonda, poi, offre punti di vista parziali e edulcorati. Se volete osservare con occhi diversi tutta la vicenda potete fare un piccolo esercizio: nel futuro prossimo il lavoro manca e vostra figlia fatica ad arrivare alla fine del mese. La pratica dell'utero in affitto è legale e una coppia facoltosa le propone di diventare "portatrice". Sono gentilissimi come pochi datori di lavoro sanno essere e ci provano realmente a inserirla nella loro famiglia. Il problema è che i datori di lavoro gentili sono sempre datori di lavoro. Tua figlia ha bisogno di quei soldi e la relazione con la coppia, sebbene distesa e amorevole, non sarà mai paritaria. Per avere del denaro in più si affida al rischio di avere problemi di salute, al dolore possibile di una separazione (chissà come reagirà il giorno del parto), al fatto di entrare a far parte di un'altra famiglia che non si conosce, di cui non aveva bisogno e da cui è stata passivamente scelta (La vostra famiglia non bastava? Per permettersi di scegliere bisogna non aver bisogno di soldi). Vostra figlia è su un gradino più basso e questo dato di fatto non è possibile addolcirlo con la retorica della bontà dei committenti.
Questo anche perché il mondo, in sostanza, è pieno di padroni illuminati: persone realmente convinte di essere buone, di trattare con dignità i propri sottoposti. Sono numericamente meno dei padroni che comandano in modo brutale (la maggioranza) ma nonostante la loro buona volontà e i solidi principi, quando devono far valere la loro posizione, ci tengono a ricordare che sono "pari" ma anche "primi". Perché sono illuminati, è vero, ma sono soprattutto padroni. E vostra figlia, contro questo dato di fatto, contro questo dato oggettivo di subordinazione economica, non potrà fare nulla. Se il principio secondo cui "chi paga può disporre senza limiti etici" è stato universalmente accettato, dovrà adeguarsi.

Anche il dibattito etico riguarda solo l'affittuario e non chi affitta. Questo anche perché in Italia la partita sulla maternità surrogata è stata giocata di sponda: praticata all'estero e accettata in Tv ma mai coraggiosamente proposta in Parlamento per essere legalizzata o bocciata dopo un chiaro dibattito sul merito. Il fatto che qui sia illegale ci ha fornito la scusa per non metterci nei panni di chi per motivi economici potrebbe diventare madre surrogata. I media, è utile aggiungere, intervistano volentieri le famiglie che pagano per avere un figlio ma i volti delle donne che sono state pagate non arrivano quasi mai nelle televisioni.

Rinunciare a regolamentare una pratica come l'utero in affitto vuole dire affidarsi all'ipotetico buon cuore di queste persone, di erodere il tabù secondo cui non tutto è in vendita e, rinunciando a mettersi nei panni di chi viene assunto per ospitare il seme di altri, nel contribuire a una pericolosa narrazione padronale della realtà.